SOCIETÀ

“Qui la corruzione è un sistema”: l’Italia secondo Piercamillo Davigo

Sono passati venticinque anni da quel 17 febbraio 1992, quando a Milano venne arrestato per una tangente Mario Chiesa. Era l’inizio di Mani Pulite, l’inchiesta giudiziaria che sembrava destinata a rinnovare radicalmente la classe politica e il Paese. Oggi a distanza di tanti anni quelle speranze appaiono disilluse: per lo meno secondo Piercamillo Davigo, allora brillante componente del Pool milanese, oggi severo presidente nella seconda sezione penale della Cassazione e fresco reduce dalla guida dell’Associazione Nazionale Magistrati. Ruoli istituzionali che non hanno spento la sua nota vis polemica, come dimostra il recente Il sistema della corruzione (Laterza 2017) presentato a Palazzo Bo durante una tavola rotonda.

Il quadro tracciato dal libro, che solo per il momento chiude una trilogia dell’autore sull’argomento, non è per nulla tranquillizzante: la corruzione secondo Davigo oggi è ancora diffusa e anzi sembra essere tornata agli antichi fasti. Viene citato a questo riguardo l’ultimo rapporto di Transparency International, dove l’Italia – nonostante qualche lieve miglioramento negli ultimi anni – figura assieme a Cuba al 60° posto nell’Indice di percezione della corruzione (IPC), dietro a Botswana, Qatar, Capo Verde e a tutti i Paesi UE (tranne Grecia e Bulgaria). E non vale secondo il magistrato il fatto che si tratta pur sempre di una rilevazione basata su percezioni e non su dati concreti: “i delitti di corruzione presentano una cifra nera (ovvero la differenza fra il numero di reati commessi e quelli risultanti dalle statistiche giudiziarie) molto elevata – scrive Davigo – . Per intenderci, il numero di condanne ogni 100.000 abitanti in Italia è più basso rispetto, ad esempio, alla Finlandia”.

La corruzione, spiega il magistrato nel libro, rappresenta una grave minaccia per qualsiasi ordinamento statale, in quanto crimine seriale e diffusivo. Seriale perché chi si macchia una volta di questo illecito tende poi a ripeterlo ad ogni occasione; diffusivo in quanto corrotti, corruttori e intermediari tendono naturalmente a infettare anche il resto del tessuto sociale. E non è tutto: la corruzione diffusa spalanca praterie al crimine organizzato, l’unico in grado di garantire nel lungo periodo efficacia a un sistema illegale diffuso, sanzionando e reprimendo i comportamenti onesti.

La corruzione per sua natura è un reato sfuggente quanto insidioso: non avviene davanti a testimoni ed è nota soltanto a chi è direttamente coinvolto, cioè a corrotti e corruttori, che hanno un interesse comune e condiviso a osservare il silenzio. Anche se si viene presi del resto non c’è da disperarsi, per lo meno in Italia: secondo Davigo infatti nel 98% delle condanne per corruzione le pene inflitte sono inferiori ai due anni di reclusione, con conseguente sospensione della pena. Una situazione che è frutto, accusa l’autore, di scelte politiche precise: “Negli anni successivi (alla stagione di Mani Pulite, ndr) nulla è stato fatto – scrive l’ex presidente dell’ANM a p. 24 – se non quel che derivava da convenzioni internazionali (…) Moltissimo, invece, è stato fatto per impedire indagini, processi, condanne”.

Insomma la Legge Severino nel 2012 e la conseguente istituzione della Autorità Nazionale Anticorruzione (mai citata nel libro) nel 2014 non sarebbero bastate a invertire questa tendenza. Oggi, come dice il titolo del libro, in Italia la corruzione si sarebbe comunque fatta sistema, con i risultati che tutti vediamo. Le ragioni  sono molteplici: dallo scarso senso civico diffuso alla debolezza delle istituzioni; il risultato è quello di un Paese sempre più povero e arretrato, che non dà un futuro ai propri giovani e non riesce a dotarsi delle infrastrutture di cui ha bisogno.

Ovvio che nella visione prospettata la magistratura non è parte del problema ma la sua soluzione, vero e proprio baluardo contro la “casta” (il termine ricorre due volte nel libro): “La professionalità e l’impegno dei magistrati italiani sono elevati. Abbiamo la più alta produttivitàal mondo: nessun’altra magistratura fa tanti provvedimenti come noi”, scrive Davigo a p. 80. Per la verità un anno fa, sempre secondo Davigo, erano solo i migliori d’Europa, ma già allora il dato era stato contestato.

Se questi sono i problemi, le risposte che Davigo individua nel capitolo finale del libro, coerentemente con il proprio percorso, sono soprattutto di natura processuale e penale, e di fatto vanno nella direzione di una sostanziale parificazione dei reati corruttivi a quelli inerenti la mafia e il terrorismo, come l’incremento delle attività di indagine da parte dei corpi di polizia, la previsione di incentivi più forti e di protezione per chi denuncia, estendendo la normativa sui collaboratori e sui testimoni di giustizia e  infine la previsione di operazioni sotto copertura. Risposte per l’appunto soprattutto  di natura giudiziaria e investigativa: è questo, forse, il passaggio meno persuasivo di un libro comunque da leggere e meditare.  

Daniele Mont D’Arpizio 

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