SOCIETÀ

2016, anno delle sorprese

Che succede Oltreatlantico? Se ne parlerà martedì 5 aprile al Teatro Ruzante nell’ambito della “Settimana di scienze politiche” organizzata da Studenti per Udu e dal dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e relazioni internazionali. Le sorprese delle elezioni presidenziali di quest’anno sono molteplici e la suspense promette di durare fino all’8 novembre quando si voterà.

La prima sorpresa è che Donald Trump, un miliardario americano senza precedenti esperienze politiche, è il favorito alla candidatura nel partito repubblicano per una combinazione di fattori che gli altri aspiranti non hanno capito, o non hanno saputo controllare: prima di tutto l’estrema frustrazione degli elettori. Una frustrazione socioeconomica: dopo otto anni di crisi, di salari che stagnano, di ripresa dell’occupazione che in realtà nasconde l’espulsione permanente di milioni di americani dal mercato del lavoro i lavoratori bianchi non credono più alle promesse dell’establishment e sono alla ricerca di un capro espiatorio. Trump ha offerto loro l’immigrazione e l’islam, usando abilmente la cronaca degli attentati per fare proposte tanto provocatorie quanto irrealizzabili (blocco dell’inmigrazione, costruzione di un muro alla frontiera con il Messico, abolizione del diritto alla cittadinanza legato alla nascita sul suolo degli Stati Uniti).

La seconda sorpresa è che, per la prima volta nella storia, una donna ha ottime possibilità di diventare presidente: Hillary Clinton, moglie di Bill Clinton che fu eletto nel 1992 e rieletto nel 1996, è la favorita tra i candidati democratici alla nomination.

La terza sorpresa è che quando un partito è rimasto per due mandati alla Casa Bianca, come i democratici con Obama, ottenere un terzo mandato è difficile. Se guardiamo alle elezioni presidenziali del dopoguerra, questa situazione si è verificata sette volte: nel 1952, 1960, 1968, 1976, 1988, 2000 e 2008. In tutti e sette i casi, il partito di opposizione ha fatto un balzo in avanti nei suffragi. Se escludiamo due elezioni anomale come il 1968 e il 1976 ci restano cinque elezioni di cui quattro sono state vinte dallo sfidante, che in media ha ottenuto ben 7 punti percentuali in più della tornata precedente. Quindi, se le tradizioni verranno rispettate, nel 2016 i repubblicani dovrebbero incrementare la loro percentuale di voti ma, fin qui, i sondaggi danno in vantaggio Hillary Clinton su qualsiasi candidato repubblicano.

La quarta sorpresa è che Bernie Sanders, un candidato di sinistra, che si autodefinisce “socialista” (parola proibita nel lessico politico americano) sta ottenendo numerosi successi nelle primarie e, in teoria, potrebbe anche strappare la nomina alla Clinton, diventando il candidato del partito democratico a novembre.

Cerchiamo di capire meglio il contesto di quest’anno elettorale così eccitante.

A destra c’è prima di tutto una frustrazione politica che ha favorito un outsider come Trump: la base del partito repubblicano, prevalentemente bianca e “sudista” non ha mai veramente accettato la legittimità della presidenza Obama e la sua mobilitazione ha portato alle vittorie nelle elezioni parziali del 2010 e del 2014, che hanno riportato il Congresso sotto il controllo dei repubblicani. Nonostante ciò, i leader del partito non sono riusciti ad ottenere nulla di quanto promettevano quotidianamente agli elettori: l’abrogazione della riforma sanitaria, il rifiuto dei matrimoni fra omosessuali, la messa fuori legge dell’aborto. Di qui la ribellione della base, che ha trovato in Trump “l’uomo forte” che stava cercando. Il successo del miliardario, oltre che al suo fiuto politico nel trovare il tono giusto, è legato anche alla mediocrità dei suoi avversari ma i giochi non sono ancora fatti: la convenzione si svolgerà solo nel luglio prossimo a Cleveland.

Tra i democratici, il favorito è un candidato “moderato”, Hillary Clinton. La sua filosofia è che tutti hanno diritto a salire la scala sociale ma la gerarchia sociale deve rimanere quella che è. Certo, occorrerà “limitare l’influenza delle grandi fortune in politica” (punto 7 della sua piattaforma) e i più ricchi dovranno “pagare la loro giusta parte di tasse” (punto 8) ma questo nell’ambito di ciò che i mercati consentono e Wall Street approva. La Clinton offre una politica favorevole all’immigrazione e di sostegno alle famiglie ma le 112 ragioni per votarla evitano completamente i temi che alimentano la rabbia sociale negli Stati Uniti, a cominciare dai salari che stagnano da 35 anni e dall’insicurezza economica che la ripresa e il calo della disoccupazione non hanno eliminato.

Non c’è nulla di strano in tutto ciò: fin dagli anni Settanta, la base sociale del partito democratico si è spostata dagli operai sindacalizzati (in diminuzione per ragioni strutturali – la disindustrializzazione - e culturali – il loro attaccamento ai valori tradizionali) ai professionisti che vivono in città e nei sobborghi, in particolare quelli delle industrie più avanzate. Questo spiega il “progressismo” sul piano sociale (difesa dei diritti all’aborto o al matrimonio omosessuale) combinato con una totale indifferenza per i diritti sindacali, l’occupazione, la salvaguardia dei salari. Hillary pensa di non aver bisogno dei voti della working class, “abbandonati” ai repubblicani perché quelli dei professionisti, degli intellettuali e delle minoranze etniche sarebbero sufficienti. 

Questo calcolo potrebbe però essere miope: i giovani attratti dal suo concorrente Bernie Sanders e dalla sua insistenza sulla necessità di una “rivoluzione politica” in America potrebbero rinunciare a votare a novembre se il candidato sarà lei. Certo, se il candidato repubblicano sarà Donald Trump, il suo vantaggio tra le donne sarà così enorme da garantire probabilmente la vittoria alla Clinton ma anche questo è un fattore che potrebbe essere in dubbio: le donne non sposate e giovani non si riconoscono in lei. Insomma, Hillary è il candidato della continuità, dello status quo, dell’establishment e il suo essere donna non cambia nulla a questa realtà. Il 2016 potrebbe essere un anno in cui tutto questo è un handicap invece che un vantaggio. Ne parleremo alle 17 al teatro Ruzante.

Fabrizio Tonello

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