SOCIETÀ

In nome di quale politica: i seguaci del trumpismo

Eccoli gli apostoli del trumpismo, che chiamano a raccolta i loro seguaci, che scendono in piazza invocando la “democrazia” ma pretendendo al tempo stesso di esercitare un potere al di sopra delle leggi, attaccando lo stato di diritto e l’indipendenza della magistratura. Marine Le Pen è stata appena condannata a quattro anni di carcere (due dei quali condonati) e a 5 anni di ineleggibilità per appropriazione indebita di fondi del Parlamento Europeo: il che la escluderebbe dalla corsa presidenziale del 2027, salvo ribaltamenti della sentenza in appello. Eppure la leader dell’estrema destra francese ha immediatamente indossato i panni della martire, sostenendo di essere “vittima di una caccia alle streghe politica”, parlando di “diritti violati”, di “milioni di francesi indignati”, fino a sostenere che la magistratura le ha lanciato contro “una bomba nucleare per impedirle di correre alle prossime presidenziali”. E perciò ha chiamato a raccolta i suoi fedelissimi (non una gran folla, appena qualche migliaio di persone) domenica scorsa in Place Vauban, nel cuore di Parigi, per una pubblica protesta indetta “per salvare la democrazia”. 

Cambio di scena: Brasile, Rio De Janeiro. La spiaggia di Copacabana è affollata da migliaia di persone (18mila secondo le stime dei quotidiani locali) che indossano le magliette verde-oro della nazionale di calcio brasiliana, che gridano slogan a favore dell’ex presidente Jair Bolsonaro e che mostrano cartelli con su scritto Amnistia ora. I guai di Bolsonaro sono assai più gravi di quelli di Le Pen: il mese scorso era stato formalmente accusato dal procuratore generale del Brasile per aver tentato di organizzare un colpo di stato, in combutta con altre 33 persone, dopo aver perso le elezioni dell’ottobre 2022. Il complotto, chiamato dagli stessi organizzatori “Pugnale verde e giallo”, puntava “ad abbattere il sistema dei poteri e l’ordine democratico” e includeva anche un piano per avvelenare il suo successore e attuale presidente, Luiz Inácio Lula da Silva, e per uccidere un giudice della Corte Suprema, Alexandre de Moraes. Qualora fosse ritenuto colpevole l’ex presidente, già condannato all’ineleggibilità fino al 2030 per aver sostenuto che il sistema elettorale brasiliano era truccato, rischia di passare in carcere i prossimi 20 anni. 

Il “colpo di spugna” su Capitol Hill

Anche Bolsonaro nega tutto, si definisce un “perseguitato politico”, parla di un “attacco alla democrazia”. Eppure le affinità con Trump, con la sua condotta, con il suo stile, sono lampanti. A partire dalle insurrezioni dei suoi sostenitori che l’8 gennaio 2023 assaltarono e vandalizzarono i “luoghi” del potere a Brasilia (la Corte Suprema, il Congresso, il Palazzo presidenziale) per contrastare l’elezione di Lula. Oltre 1.500 furono gli arresti: e l’attuale richiesta d’amnistia dei fan di Bolsonaro punta proprio a cancellare quelle condanne. Ma l’analogia con quanto accaduto a Capitol Hill il 6 gennaio 2021 è lampante: l’assalto al Campidoglio dei fanatici estremisti di destra trumpiani per impedire “fisicamente” ai legislatori americani di certificare la vittoria di Joe Biden alle elezioni; l’accusa di brogli lanciata dall’allora ex presidente senza alcun fondamento; l’accusa, ricevuta da diversi tribunali e giudici degli Stati Uniti, di aver attivamente “incitato” all’insurrezione, o quantomeno non aver fatto abbastanza per impedirla. La differenza è nell’esito finale, e nella maggiore “capacità d’intervento” della magistratura brasiliana rispetto a quella americana: Bolsonaro è stato condannato per quel che ha fatto. Trump no, per ragioni diverse e complesse: al punto che ha potuto di nuovo candidarsi e vincere le ultime elezioni. “Il 6 gennaio dimostra che l’impunità è la regola per le élite americane”, già scriveva Newsweek nel primo anniversario di quegli eventi.

L’obiettivo di questa rete transnazionale di estrema destra, che usa gli stessi slogan, le stesse parole d’ordine, è evidente: avvelenare i pozzi della democrazia. Colpire il pilastro della separazione dei poteri, delegittimare qualsiasi organo della magistratura osi mettersi di traverso con la “scusa” di applicare la legge. Neutralizzare il sistema giudiziario e smantellare i sistemi di supervisione che mettono sotto controllo la loro autorità. Come ha ricordato recentemente il politologo Steven Levitsky, professore all’Università di Harvard, in un’intervista al settimanale tedesco Der Spiegel: “Stiamo assistendo al collasso della nostra democrazia. Sotto Donald Trump, gli Stati Uniti stanno scivolando in una forma di autoritarismo competitivo. Questo probabilmente non sarà irreversibile. Ma il fatto è che in questo momento, gli Stati Uniti stanno cessando di essere una democrazia”. Difatti il presidente americano non ha escluso l’ipotesi di ripresentarsi per un terzo mandato, nonostante il divieto imposto dal 22° emendamento della Costituzione americana. Trump non è il primo autocrate che tenta di radere al suolo lo stato di diritto: Erdogan in Turchia, Orbàn in Ungheria, per non parlare di Putin, più sfacciato nella sua postura dittatoriale. O di Netanyahu, che pur di mantenere il suo potere illimitato e schivare la fastidiosa insistenza dei giudici che pretendono di processarlo per diversi reati commessi prima della carneficina di Gaza è disposto, letteralmente, a tutto: militarmente, giudiziariamente, moralmente. A fare la differenza è il ruolo che Trump ricopre, il “peso” che una decisione del presidente degli Stati Uniti può avere sul resto del mondo. E l’esempio che può dare: difatti a Parigi i sostenitori di Marine Le Pen hanno portato in piazza l’equazione: “Se Trump si è candidato, perché vogliono impedirlo a Marine?”. Gli striscioni di altri dimostranti lepenisti recitavano: “La giustizia prende ordini”, oppure “Fermate la dittatura giudiziaria”. Lo stesso ritornello già sentito più e più volte negli ultimi decenni anche in Italia, da Berlusconi in poi. L’ultimo esempio pochi giorni fa, con il sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano che è arrivato a definire la magistratura come una sorta di contro-potere politico “che tenta di erodere la volontà popolare”. Sono in molti a essere d’accordo con lui. Elon Musk ad esempio, il plurimiliardario ospite fisso della casa Bianca, che dopo il verdetto di condanna di Le Pen ha dichiarato: “Quando la sinistra radicale non può vincere attraverso il voto democratico, abusa del sistema legale per incarcerare i suoi oppositori. Questo è il loro copione standard in tutto il mondo”. Bénédicte de Perthuis, il giudice che ha condannato la leader dell’estrema destra francese, è stato posto sotto protezione dalla polizia dopo aver ricevuto diversi messaggi con minacce personali.

Il dietrofront di Trump sui dazi

Eppure la fascinazione collettiva suscitata da Trump comincia a mostrare cenni di cedimento dopo neanche tre mesi dal suo insediamento alla Casa Bianca, e dopo aver scatenato una guerra commerciale mondiale, con la decisione unilaterale e priva di qualsiasi giustificazione “tecnica” (a parte l’illusione di ripianare cosìl’enorme debito pubblico americano) d’imporre dazi praticamente al mondo intero (ma non alla Russia e alla Corea del Nord), dando così origine a un caos globale senza precedenti e dalle conseguenze ancora imprevedibili. Salvo poi congelarli, poche ore fa, con una mossa a sorpresa, probabilmente costretto dal crollo dei mercati globali (Wall Street ha registrato il suo peggior calo dalla pandemia di Covid), inasprendo tuttavia quelli con la Cina, portandoli al 125%: i prossimi tre mesi saranno decisivi per capire quale strada l’imprevedibile inquilino della Casa Bianca deciderà d’intraprendere. 

Resta il fatto che le critiche nei confronti di Trump si fanno sempre più aspre, e ampie. Prova ne siano le enormi manifestazioni di protesta che a partire dallo scorso fine settimana hanno attraversato ogni angolo degli Stati Uniti, sotto lo slogan Hands Off, “Giù le mani”. Alle proteste pacifiche, oltre 1.300, organizzate da più di 150 gruppi di difesa e per i diritti civili, coordinate dall’organizzazione progressista MoveOn, hanno partecipato oltre 3 milioni di americani per dire no allo smantellamento dei programmi economici e sociali, per opporsi ai brutali tagli al personale pubblico operati da Elon Musk. “Non staremo in silenzio mentre i nostri diritti, il nostro futuro e la nostra democrazia sono sotto attacco”, ha dichiarato la direttrice esecutiva di MoveOn, Rahna Epting. “Il nostro è un movimento pacifico al quale partecipano persone comuni - infermieri, insegnanti, studenti, genitori - che si stanno sollevando per proteggere ciò che conta di più. Siamo uniti, siamo implacabili e siamo solo all’inizio”. Simili manifestazioni di opposizione a Trump e alle sue politiche non soltanto commerciali iper aggressive si sono svolte anche in altri paesi, dal Canada al Messico, e in diverse capitali europee, da Parigi a Berlino, da Londra a Lisbona. 

Quanto sta accadendo in Canada, che nei sogni da imperatore di Trump potrebbe e dovrebbe diventare presto il 51° stato americano, merita un breve approfondimento. Il prossimo 28 aprile i canadesi saranno chiamati a votare per le elezioni federali, che determineranno la composizione del prossimo governo, dopo un decennio a guida liberale e dopo le dimissioni anticipate cui è stato costretto l’ex leader del Partito Liberale, Justin Trudeau. Sembrava tutto apparecchiato per un drastico cambio di scenario, con il Partito Conservatore, capitanato dal 45enne Pierre Poilievre, populista di destra e simpatizzante trumpiano(scimmiottando il presidente americano aveva sfoggiato lo slogan Canada First) pronto ad assumere la guida del governo, forte di un vantaggio record nei sondaggi di 27 punti percentuali rispetto al Partito Liberale (47% contro 20%, stando alla rilevazione di Abacus Data del 9 gennaio 2025). Ma sono bastati un paio di mesi di Trump alla Casa Bianca, con le sue mire da conquistatore, per ribaltare i sondaggi: ora i Liberali sono tornati in vantaggio di dieci punti, con il primo ministro Mark Carney, economista, ex governatore della Bank of Canada, che evidentemente offre più garanzie e competenze rispetto a Poilievre, accusato dai suoi stessi colleghi di partito di aver risposto troppo lentamente alle minacce di annessione e alle aggressioni commerciali del presidente americano. I sondaggi sono una cosa, il voto reale spesso dice altro: ma nella migliore delle ipotesi, vista dal lato dei Conservatori, l’elezione del 28 aprile si risolverà con un testa a testa. Ma di certo gli atteggiamenti di Trump e i suoi modi da gangster hanno appesantito la corsa dei conservatori, scatenando proteste tra i canadesi. In una di queste, domenica scorsa, a Montreal, alcuni manifestanti hanno innalzato striscioni sostituendo all’ormai celebre acronimo trumpiano MAGA (Make-America-Great-Again) il più beffardo “Menteur- Arrogant-Goujat-Abuseur” (Bugiardo, Arrogante, Maleducato e Abusatore). Scrive The Tyee, sito giornalistico indipendente con sede a Vancouver: “Con l’attacco non provocato e punitivo di Trump al Canada, Mark Carney ha esattamente le qualifiche per affrontare questa enorme crisi economica. Se mal gestita, potrebbe costare al paese la sua industria automobilistica e centinaia di migliaia di posti di lavoro in altri settori. I tempi richiedono un negoziatore sofisticato con un background in finanza, non un cane da guerra politico”.

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