SOCIETÀ

Israele, un premier all’angolo e quel parallelismo con Trump

Nulla di quanto sta accadendo in Israele, almeno da un anno e mezzo a questa parte, può essere considerato “normale”. Non l’atroce attacco terroristico subìto il 7 ottobre 2023 (e come sia potuto accadere è ancora abbastanza incomprensibile); non la risposta disumana, devastante, insopportabile che a tutt’oggi continua implacabile da parte dell’esercito israeliano contro l’intera popolazione palestinese della Striscia di Gaza (superata la soglia dei 50mila morti, grandissima parte dei quali civili inermi, per non parlare delle infrastrutture distrutte, degli ospedali, delle scuole, delle case); non le guerre parallele scatenate in Libano, in Siria, nello Yemen, come se l’unica possibile strategia politica fosse il perseguimento di un conflitto globale permanente; non la metodica, inesorabile deprivazione delle terre palestinesi in Cisgiordania ad opera dei coloni sostenuti dall’attuale governo israeliano, del quale fanno parte fanatici ultranazionalisti; ma non può essere definito “normale” neanche il continuo tentativo, da parte dell’attuale governo, di spezzare quel che resta delle regole democratiche sulle quali lo stato d’Israele è stato edificato, 77 anni fa. Oggi Benjamin Netanyahu è un premier sotto assedio da ogni lato: sui fronti internazionali di guerra, ma anche in quello interno, soprattutto dopo i reiterati tentativi (suoi e dell’esecutivo che ancora lo sostiene) di rimuovere dai loro incarichi tutti i funzionari pubblici che osano mettersi di traverso sul suo cammino. Come Ronen Bar, direttore dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani (vedremo più avanti i dettagli del perché). O come la procuratrice generale Gali Baharav-Miara, accusata di “comportamenti inappropriati” e “differenze sostanziali” con la linea politica dell’esecutivo, che domenica scorsa, all’unanimità, aveva approvato una mozione di sfiducia nei confronti della giudice. Va detto che tra i compiti della procuratrice generale c’è anche la supervisione delle attività del sistema giudiziario israeliano: il primo ministro Netanyahu è ancora oggi sotto inchiesta, in tre distinti procedimenti, con l’accusa di corruzione, frode, appropriazione indebita. La guerra scatenata contro Gaza ha rallentato i processi, ma non li ha bloccati. L’ultima udienza si è tenuta lunedì scorso, 24 marzo: “Questi processi folli stanno danneggiando i nostri progressi”, si è lamentato il primo ministro che siede sul banco degli imputati. “Il mondo continua e noi siamo bloccati in questa caccia alle streghe che costa a Israele 13 milioni di shekel all’anno” (l’equivalente di 3,5 milioni di dollari). Netanyahu da molti anni cerca una via d’uscita ai suoi guai giudiziari, ma le opzioni in suo possesso si stanno riducendo sempre di più. “La mozione di sfiducia punta soltanto a promuovere la lealtà ai vertici politici”, ha commentato Baharav-Miara. “Non per favorire la governabilità, ma piuttosto il potere illimitato del regime, come parte di un processo più ampio per indebolire il ramo giudiziario. Il governo israeliano sta tentando di operare al di sopra della legge”.

Lo “stile Trump” e le infiltrazioni nella polizia

Benjamin Netanyahu sembra imperturbabile a qualsiasi evento: alle critiche internazionali, a quelle interne, ai processi, alle centinaia di migliaia di manifestanti, ormai di ogni schieramento politico, perfino di destra, che quotidianamente protestano sotto la sua abitazione, lanciandogli addosso durissime accuse (“Sta uccidendo gli ostaggi e distruggendo la democrazia”), protestando per l’estrema violenza con cui la polizia continua ad aggredire i dimostranti. Pochi giorni fa il New York Times ha tracciato un parallelismo tra Trump e Netanyahu, prendendo spunto da questo post pubblicato su X dal premier israeliano: “In America e in Israele, quando un forte leader di destra vince le elezioni, lo Stato Profondo di sinistra arma il sistema giudiziario per contrastare la volontà del popolo. Non vinceranno in nessuno dei due posti! Siamo forti insieme”. Scrive il NYT: “L’attacco provocatorio e trumpiano è stata l’ultima dimostrazione che Netanyahu e il presidente Trump stanno seguendo lo stesso copione per raggiungere obiettivi sorprendentemente simili: neutralizzare il sistema giudiziario, smantellare un sistema di supervisione che mette sotto controllo la loro autorità e screditare i professionisti della sicurezza nazionale che vedono schierati contro di loro”. Si chiama autocrazia: ed è esattamente l’opposto della democrazia.

A proposito di “professionisti della sicurezza nazionale”: all’origine della delicata questione che riguarda il direttore dello Shin Bet, Ronen Bar, la cui rimozione è stata “congelata” dalla Corte Suprema israeliana, ci sarebbe, come riporta il quotidiano Times of Israel, un’indagine rimasta finora segreta sulla possibile infiltrazione di elementi di estrema destra all’interno della polizia israeliana. E il ministro della Sicurezza nazionale, che è anche responsabile delle attività di polizia, è Itamar Ben Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, un ultranazionalista che sostiene l’espansione incontrollata degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, già condannato otto volte in passato per vari reati, tra i quali razzismo e sostegno a un’organizzazione terroristica, e che si oppone con risolutezza a qualsiasi ipotesi di tregua con Hamas. Era arrivato addirittura a dimettersi dal governo quando era stata firmata la tregua mediata da Trump, salvo poi rientrarvi non appena Netanyahu ha infranto gli accordi, riprendendo i bombardamenti sulla Striscia, sempre più letali. Contro il suo reintegro si era espressa proprio la procuratrice generale Gali Baharav-Miara, che aveva sostenuto come fosse illegale rinominarlo nell’incarico mentre la Corte Suprema stava indagando su di lui per una presunta “cattiva condotta” nella gestione delle azioni delle forze di polizia durante le manifestazioni (detto in altre parole: autorizzare, se non imporre, un robusto uso della forza). 

Pochi giorni fa la rete televisiva israeliana Channel 12 news ha rivelato che lo Shin Bet, il servizio segreto israeliano, aveva avviato nell’agosto del 2024 un’indagine sulla possibile infiltrazione nelle forze di polizia di seguaci del kahanismo (dal nome del suo ideologo Meir Kahane, controverso rabbino, teorico della violenza e della vendetta anti-araba come imperativi religiosi ebraici, fondatore del partito Kack, prima eletto alla Knesset e poi espulso nel 1988, infine assassinato a New York nel 1990 da un terrorista arabo): una manovra che sarebbe stata “guidata” proprio dall'ufficio del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir. Che non ha preso bene l’indagine promossa da Ronen Bar. Il Times of Israel scrive che tra i due c’è stato un aspro litigio: “Il ministro ha definito il capo dello Shin Bet un “bugiardo, un criminale che deve stare in prigione” e che “sta cercando di istigare un colpo di stato”“. È questa la ragione che ha portato al clamoroso “licenziamento” del capo dello Shin Bet (ammesso che al governo riesca la mossa di cacciarlo): l’estrema destra fondamentalista ordina, Netanyahu esegue. Come se lo stesso premier, e sarebbe il più tragico dei paradossi, fosse diventato un ostaggio nelle mani dell’estrema destra ebraica: perché è da loro che dipende la sua stessa sopravvivenza politica. Se dovesse cadere il governo, a Netanyahu, rincorso anche da un mandato di cattura internazionale emesso dalla Corte Penale Internazionale per i crimini commessi a Gaza, non rimarrebbe altro ruolo che quello d’imputato nei processi che lo riguardano.

Insomma, più tempo passa più si consolida la convinzione che, dopo 17 mesi di guerra, Netanyahu continui a operare non per il bene del suo Paese, ma soltanto per il proprio vantaggio politico, capace di adattarsi agli eventi come un tragico Zelig. Ma c’è anche un’altra ombra sul suo operato, nota da tempo ma ancora mai formalmente provata (sulla quale, peraltro, sta indagando lo Shin Bet). C’entra il “Qatargate”, il clamoroso caso di corruzione che nel dicembre 2022 ha sconvolto il Parlamento Europeo. E c’entrano due dei principali aiutanti di Netanyahu, Yonatan Urich ed Eli Feldstein, accusati di aver preso denaro dal Qatar in cambio di un non meglio precisato lavoro di “pubbliche relazioni” per l’emirato del Golfo. Se quel denaro sia finito nelle mani di Netanyahu è ancora soltanto un sospetto. Ma c’è un rapporto che sostiene come il premier israeliano fosse comunque a conoscenza dei finanziamenti che per diversi anni dal Qatar sono finiti direttamente al governo di Hamas (rate mensili da 4 milioni di dollari l’una) prima dell’attacco del 7 ottobre. Ma perché? Con quale obiettivo? Il New York Times, alla fine del 2023, scriveva: “Consentire i pagamenti - miliardi di dollari in circa un decennio - è stata una scommessa di Netanyahu secondo cui un flusso costante di denaro avrebbe mantenuto la pace a Gaza e avrebbe mantenuto Hamas concentrato sul governo, non sulla lotta”. Scommessa persa, come poi si è visto.

La spaccatura nel popolo è immensa, e non si sta facendo alcuno sforzo per rimarginarla. Tutti stanno cercando di peggiorare le cose Aaron Barak

“Israele sull’orlo di una guerra civile”

In Israele i toni delle critiche e delle accuse, soprattutto nei confronti del premier e del governo che ancora lo mantiene in sella, si stanno alzando sempre più. L’illustre giurista Aaron Barak, 88 anni, intervistato la scorsa settimana da Channel 12, è arrivato a dire che “Israele è sull’orlo di una guerra civile: perché la spaccatura nel popolo è immensa, e non si sta facendo alcuno sforzo per rimarginarla. Tutti stanno cercando di peggiorare le cose. Oggi ci sono manifestazioni, poi un'auto le attraversa e investe qualcuno. Ma domani ci saranno sparatorie, e il giorno dopo ci sarà spargimento di sangue”. Barak ha poi criticato i tentativi di licenziamento del direttore dello Shin Bet e della procuratrice generale, definendoli “una sfida diretta alla democrazia e allo stato di diritto di Israele, una linea rossa che non avrebbe mai dovuto essere superata”. “Dobbiamo prevenire la tirannia della maggioranza - ha concluso Barak -. Questa spaccatura si sta deteriorando e alla fine, temo, sarà come un treno che esce dai binari e precipita in una voragine provocando una guerra civile”.

Parole gravi, come la situazione attuale. Ma ne sono state dette altre, nei giorni scorsi, di uguale importanza e complessità. Perché a pronunciarle è stato il presidente di Israele, Isaac Herzog: “Quale livello di follia possiamo raggiungere come nazione”? Una domanda intrisa di dolore e di angoscia, perfino di stupore per la piega che hanno preso gli eventi. “I funzionari eletti dovrebbero seguire tre regole” - ha proseguito Herzog, partecipando a un incontro pubblico. “Non c’è e non ci sarà una guerra civile, ed è proibito parlare di una guerra civile. Due: non c’è e non ci sarà una violazione della legge. E tre: non c’è e non ci sarà una violazione di un ordine del tribunale. Non seguire queste tre linee guida porterà allo smantellamento di Israele”. Nel mirino di Herzog c’è sempre lui, il premier israeliano. Perché Israele ha un problema, e non dall’attacco dei terroristi palestinesi del 7 ottobre: il problema si chiama Benjamin Netanyahu. La scorsa settimana il centro di ricerche indipendente The Israel Democracy Institute (IDI) ha pubblicato un editoriale firmato dalla docente di diritto costituzionale Suzie Navot: “I campanelli d’allarme non potrebbero suonare più forte: coloro che desiderano proteggere la sicurezza e la democrazia dello stato di Israele dovrebbero prestare attenzione all’avvertimento”.

© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012