SOCIETÀ

Un Medio Oriente più instabile che mai: Israele rilancia la strategia del caos

A passi decisi verso un conflitto globale che potrebbe facilmente varcare i confini del Medio Oriente. L’attacco unilaterale (senz’altro pretesto che la “difesa preventiva della sicurezza”) lanciato nella notte tra giovedì e venerdì scorso da Israele verso l’Iran, con 200 aerei da combattimento che hanno colpito un centinaio di obiettivi (a Teheran, a Tabriz, l’impianto nucleare a Natanz, la base militare di Borujerd), uccidendo, oltre a un numero imprecisato di civili, almeno tre alti leader militari iraniani (tra i quali il comandante delle Guardie Rivoluzionarie, generale Hossein Salami, e il capo di stato maggiore delle forze armate, generale Mohammad Bagheri) rischia d’innescare una drammatica escalation, sullo sfondo di un pericolo di guerra nucleare che non è mai stato così vicino negli ultimi sessant’anni. Dopo aver subìto gli attacchi, l’Iran ha issato la simbolica bandiera rossa sulla moschea nel villaggio di Jamkaran, pochi chilometri a est della città sacra di Qom: una bandiera che nella tradizione sciita vuol significare un appello alla giustizia e alla vendetta, soprattutto quando il sangue è stato versato ingiustamente (era stata già issata nel gennaio del 2020, dopo l’omicidio in Iraq, con un attacco di droni statunitensi, del comandante delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, Qasem Soleimani). La rappresaglia è arrivata immediata, la sera di venerdì, con centinaia di missili lanciati sulle città israeliane, soprattutto a Tel Aviv: il bilancio, in continuo aggiornamento, parla per ora di 13 morti, oltre 200 feriti e 20 dispersi. Di contro, la tv iraniana ha detto che circa 60 persone, tra cui 20 bambini, sono state uccise soltanto in un attacco israeliano a un complesso residenziale a Teheran (ma sono state colpite anche raffinerie, impianti di gas e depositi petroliferi, non soltanto nella capitale). Il premier israeliano Netanyahu si è anche rivolto agli iraniani esortandoli ad approfittare di questo momento per ribellarsi contro il regime: “La lotta di Israele non è contro il popolo iraniano. La nostra lotta è contro il regime islamico omicida che vi opprime e vi impoverisce”. Il problema è che a parlare è un leader con gravissimi problemi di approvazione interna: per aver messo la firma e la faccia sull’indicibile massacro a Gaza, per non aver saputo riportare a casa tutti gli ostaggi, per aver proposto riforme (una su tutte: quella sulla giustizia) che calpestano le più elementari regole della democrazia. Secondo un sondaggio di tre mesi fa il 70% degli israeliani non si fida più di lui, delle sue azioni, del suo governo sostenuto dagli estremisti di destra. Ora la situazione potrebbe essere perfino peggiorata. Lo stesso Netanyahu ha annunciato che “l’Iran pagherà per le donne e i bambini uccisi”, e che “gli attacchi contro l’Iran continueranno per tutto il tempo necessario”, in uno stallo da “guerra continua” in cui lui stesso ha tutto da guadagnare. Intanto Israele ha disposto la chiusura di tutte le sue ambasciate nel mondo. Mentre Vladimir Putin, nel frenetico e maldestro tentativo di riaccreditarsi come “player internazionale”, si è proposto per mediare una tregua tra i contendenti. Questo nuovo fronte di guerra sembra appena agli albori. 

Lo sfondo dei colloqui sul nucleare

Al di là della cronaca rimangono diverse domande ancora senza una risposta univoca. La prima è semplice e complessa al tempo stesso: perché? Perché proprio ora, perché esasperare una situazione già estremamente tesa, perché correre questo ulteriore rischio di allargare il conflitto attaccando il “nemico storico”? La giustificazione è la solita: questioni di sicurezza interna, e per bloccare il programma nucleare iraniano, mentre i colloqui con gli Stati Uniti sono stati bruscamente interrotti dopo l’attacco israeliano: “Qualsiasi dialogo è ormai privo di significato”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri, Esmaeil Baghaei, individuando una precisa responsabilità nel ruolo della Casa Bianca. “Non si può pretendere di negoziare e allo stesso tempo permettere al regime sionista di prendere di mira il territorio iraniano”. Anche perché lo stesso Trump ha definito “eccellenti” i raid israeliani, prima di invitare gli iraniani a raggiungere al più presto un accordo. Come se quei raid fossero stati in realtà una forma di pressione, concordata con Washington, per costringere Teheran a firmare. È soltanto un’ipotesi, ma verosimile: e soprattutto compatibile con la grammatica diplomatica che Trump è abituato a usare: la più aggressiva sfrontatezza (c’è chi li definisce “modi da gangster”), nonostante i mediocri risultati finora conseguiti. 

Un “parco giochi” per il Mossad

È evidente che Netanyahu e i suoi accoliti puntino ora ad abbattere il regime di Teheran (che ha aperto le stazioni della metropolitana alla popolazione, da usare come rifugio antiaereo improvvisato, 24 ore su 24). Secondo la Cnn “l’attacco senza precedenti di Israele dimostra che l’Iran è diventato un “parco giochi” per il Mossad, il servizio segreto israeliano: un’operazione militare e di intelligence che non ha precedenti per dimensioni e portata” (e l’agenzia di stampa Tasnim ha riferito che ieri, domenica, due persone sono state arrestate nella provincia di Alborz perché sospettate di avere legami con il Mossad). Un funzionario del governo Netanyahu ha perfino dichiarato al Wall Street Journal che anche il leader supremo iraniano, Ali Khamenei, non è più al sicuro, che di fatto potrebbe essere eliminato, assassinato: “La guerra finirà solo con lo smantellamento volontario del programma nucleare da parte dell’Iran o con l’impossibilità per Teheran di ricostituirlo”. Una storia antica quella del nucleare iraniano vissuto come “minaccia”, che risale al 1979, quasi cinquant’anni fa, quando la rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Komeini riuscì a rovesciare, dopo 37 anni di regno, lo Scià Mohammad Reza Pahlavi. Fino ad allora l’Iran, stretto alleato degli Stati Uniti, aveva fatto parte del consistente gruppo di Stati che aveva aderito al “Trattato di non proliferazione nucleare”, proprio con l’obiettivo di prevenire la diffusione delle armi nucleari e per promuovere la cooperazione nell’uso pacifico dell’energia nucleare. A partire da quella data, gennaio 1979, il regime degli ayatollah decise di puntare sulla tecnologia nucleare sia per uso civile sia per uso bellico, anche per reagire alle sanzioni che gli Stati Uniti avevano immediatamente imposto a loro carico. Seguirono anni dove si alternarono allarmi e trattative diplomatiche: fino al 2015, quando i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Usa, Cina, Russia, Francia e Regno Unito) firmarono con l’Iran il Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa). Teheran, in pratica, accettava di smantellare gran parte del suo programma nucleare (soprattutto gli impianti utilizzati per l’arricchimento dell’uranio) e di aprire le sue strutture a ispezioni internazionali più estese in cambio di miliardi di dollari di alleggerimento delle sanzioni a suo carico. Regista dell’operazione fu l’allora presidente americano Barak Obama, che fronteggiò il voto contrario dei repubblicani, secondo i quali era “troppo conciliante” (era contrario anche il governo d’Israele, come sempre presieduto da Netanyahu). Secondo Donald Trump, che due anni dopo, nel 2017, sarebbe entrato da presidente alla Casa Bianca, i democratici avevano “regalato miliardi agli ayatollah senza ottenere in cambio nulla di concreto”. L’anno successivo, nel 2018, decise di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo Jcpoa ordinando di “colpire i generali iraniani colpevoli di aver organizzato attacchi contro le basi americane in Medio Oriente”. Da lì in poi, la deriva non s’è più arrestata. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), l’organo di controllo nucleare delle Nazioni Unite, ritiene che nessuna altra nazione possiede uranio arricchito allo stesso livello dell’Iran senza mantenere un dichiarato programma di armi nucleari. Ed è proprio questa discrepanza che continua ad alimentare lo scetticismo sulle vere intenzioni di Teheran, che ha certamente usato le sue scorte di uranio per uso militare come leva nei negoziati diplomatici, offrendo spesso la sua disponibilità a rinunciarvi in cambio della revoca delle sanzioni guidate dagli Stati Uniti.

Bisogna dire tuttavia che l’Iran mostra da tempo evidenti segni di debolezza nel suo apparato di difesa, e questa può essere una delle ragioni che hanno spinto Netanyahu a intraprendere l’attacco unilaterale. Come aveva anticipato un rapporto del James Martin Center for Nonproliferation Studies, un istituto di ricerca americano, pubblicato in esclusiva il 15 maggio scorso dall’autorevole sito Breaking Defense: “Le difese aeree iraniane intorno al sito nucleare di Natanz, che comprende anche una rete di strutture sotterranee a una profondità tale che sarebbero difficili da distruggere con attacchi aerei, sono più fragili del previsto”. Inoltre i tradizionali alleati dell’Iran, almeno in questa prima fase del conflitto, sono rimasti un passo indietro, senza esporsi. L’Associated Press riporta che il leader della milizia libanese Hezbollah, Naim Kassem, ha condannato gli attacchi di Israele e offerto le pubbliche condoglianze per gli alti ufficiali iraniani uccisi nei raid, ma senza annunciare un diretto coinvolgimento della milizia in azioni di rappresaglia. A differenza dei ribelli yemeniti Houthi che proprio ieri hanno annunciato di aver lanciato missili contro Israele in coordinamento con l’Iran.

La preoccupazione internazionale, che come spesso è accaduto negli ultimi anni si limita alle parole, è racchiusa in una dichiarazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, riunito in sessione straordinaria, su richiesta dell’Iran, proprio in seguito agli attacchi lanciati la sera del 12 giugno scorso da Israele. Rosemary DiCarlo, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari politici, ha dichiarato: “Riaffermo la condanna del Segretario Generale di qualsiasi escalation militare in Medio Oriente. Esorto sia Israele sia l’Iran a evitare a tutti i costi una discesa in un conflitto regionale più profondo e più ampio”. Il che ha scatenato la reazione del ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi, che ha accusato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di “indifferenza di fronte agli attacchi mortali di Israele contro la Repubblica Islamica”. Mentre Bronwen Maddox, direttrice del centro studi britannico Chatham House, specializzato in analisi geopolitiche, ritiene che il Regno Unito “…quasi certamente dirà qualcosa per sostenere il prosieguo dei colloqui diplomatici tra Stati Uniti e Iran e per invitare alla calma”. “L’attacco di Israele è chiaramente progettato per far naufragare quei colloqui”, è il parere di Maddox. “Mostra anche che Netanyahu non è molto preoccupato per le opinioni di Washington, che sembra aver ignorato. Ma c’è preoccupazione in tutto il Golfo che l’Iran possa scegliere di colpire non soltanto Israele, ma anche i vicini che sono vicini agli Stati Uniti”. Minacce sono state rivolte da Teheran anche verso Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Conflitto globale, appunto: uno scenario da brividi che resta nelle mani, e nelle decisioni, di pochi leader politici che hanno già ampiamente dimostrato di non possedere appieno il dono dell’equilibrio, della saggezza, della lungimiranza.

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