SOCIETÀ

Alzheimer: se il medico “prescrive” una visita al museo

Una “valigetta dei ricordi” (memory suitcase) contenente memorie del passato, dai manifesti ferroviari ai libri illustrati, ai giochi. Passeggiate che rievocano la storia di Liverpool attraverso manufatti e immagini di un tempo (memory walks). E da qualche mese anche una app che permette di esplorare oggetti del quotidiano appartenenti per lo più agli anni 1920-1980 e di condividere ricordi insieme. È ciò che ha pensato il circuito dei National Museums Liverpool per chi soffre di demenza senile, con l’obiettivo di stimolare la memoria e favorire la conversazione. Un programma (House of Memories), quello in cui si inseriscono queste e molte altre attività, che prevede a monte un percorso di formazione per i familiari e chi si prende cura del paziente. Se da Liverpool ci si sposta a New York, al Museum of Modern Art (MoMA), si troverà la stessa attenzione nei confronti del malato di Alzheimer. La galleria d’arte una decina di anni fa fu tra le prime ad avviare cicli di visite guidate per pazienti con demenza senile, Meet me at MoMA. Il percorso ha avuto un impatto positivo sui malati al punto che si è deciso di estendere il programma ad altre città. Musei e gallerie d’arte appaiono dunque “servizi” di non secondaria importanza per chi soffre di demenza senile e ciò per svariati motivi.  

Già alla metà del Novecento Theodore Lewis Low sottolineava che i musei avevano la responsabilità sociale di coinvolgere un pubblico più ampio possibile nelle proprie attività. Agli inizi degli anni Novanta l’American Association of Museums documentava lo sviluppo di nuovi ruoli per gallerie d’arte e musei, che cercavano di coinvolgere pubblici sempre più diversificati e di porre l’educazione al centro del loro servizio. Via via il passaggio da una concezione delle istituzioni museali come luoghi di “deposito” di beni culturali a spazi per l’apprendimento, la socializzazione e il benessere ha offerto nuove opportunità di avviare programmi per persone con bisogni particolari. L’inclusione sociale, ad esempio, è diventato un tema importante su cui lavorare. Ma non solo. Silverman, alla fine del Novecento, parlava di “potenziale terapeutico” dei musei per differenti categorie di persone, tra cui chi soffriva di demenza senile. In questa categoria di pazienti, in particolare, lo studioso osservava benefici in termini di autostima, abilità sociali e stimoli cognitivi. 

Una delle caratteristiche della demenza senile, patologia in aumento negli ultimi anni parallelamente al progressivo allungamento dell’aspettativa di vita, è proprio il significativo declino di capacità cognitive come la memoria, il linguaggio, la capacità di astrazione e di comunicazione che possono condurre all’isolamento sociale. La perdita della memoria autobiografica è particolarmente pronunciata e una delle possibili conseguenze è la perdita di identità. In questo senso, secondo Thomas Junker, l’arte può costituire una sorta di linguaggio, un modo per comunicare che prescinde dalle sole abilità cognitive. 

E non solo. “Gli oggetti conservati nei musei raccontano le storie della civiltà – osservavano Paul M. Camic ed Helen J. Chatterjee già qualche anno fa in un articolo dal titolo eloquente, Museums and art galleries as partners for public health interventions –, ma possono anche stimolare le persone a creare le loro storie o a intrecciare la storia di un oggetto, reale o immaginario, con la propria quotidianità”. Molti studiosi concordano nel ritenere che i reperti custoditi nei musei inneschino i ricordi in modi che altri materiali non sono in grado di fare. E questo ha spinto molti musei a offrire percorsi e attività che stimolano la memoria, durante i quali i partecipanti riferiscono che l’interazione con gli oggetti aiuta a far riaffiorare i ricordi e incoraggia lo scambio. Camic e Chatterjee per queste ragioni sostengono il ruolo strategico che potrebbe assumere una collaborazione tra musei e autorità sanitarie locali che veda condivise le competenze di ognuno. Si tratta di realtà che già esistono in alcune città del Regno Unito ad esempio, ma che sono ancora ben lontane dal costituire la norma.  

In Italia, al museo Marino Marini di Firenze, si sta cercando di andare proprio in questa direzione. Dal 2012, anno in cui è stato lanciato il progetto L’arte tra le mani, la struttura lavora con i malati di Alzheimer e con chi si prende cura di loro e prevede attività mirate condotte da un gruppo di due educatori museali (Chiara Lachi e Cristina Bucci) e due educatori geriatrici (Michela Mei e Luca Carli Ballola). “Noi partiamo dal presupposto che l’arte sia un grande veicolo di comunicazione – spiega Chiara Lachi, responsabile del dipartimento educativo del museo Marino Marini  - Le nostre attività si basano sulla relazione diretta con l’opera d’arte, su ciò che l’opera suscita nei pazienti con demenza senile e  sull’interpretazione che questi ne possono dare. In un secondo momento, puntando sul potenziale evocativo dell’opera, li stimoliamo a inventare insieme delle storie o delle poesie, dunque a costruire un prodotto collettivo frutto dell’interazione con gli altri e che accoglie il contributo di tutti”. Per questo le poesie possono essere composte anche da frammenti di parole o di suoni, dato che alle visite talvolta partecipano malati a uno stadio avanzato della patologia. Oltre al lavoro in gruppo si cercano di favorire anche i momenti di “microrelazione” tra la persona con Alzheimer e chi lo accompagna. Le attività sono previste all’interno del normale orario di apertura del museo per offrire a chi soffre di demenza senile un’occasione sociale e, allo stesso tempo, abbattere lo stigma nei confronti della malattia. 

Sul progetto ha creduto e investito la Regione Toscana che, tra il 2012 e il 2013, ha finanziato un corso di formazione rivolto a operatori museali così da consentire ad altre strutture di adottare il modello del museo Marino Marini e di aprire le loro collezioni a programmi con malati di Alzheimer. Oggi in Toscana sono complessivamente 14 i musei che offrono questo tipo di attività. “Ora che è stato creato un network tra i musei regionali – sottolinea Chiara Lachi – l’intenzione è di trovare forme strutturate di collaborazione con il settore socio-sanitario”. Così da comprendere anche le attività museali tra i servizi offerti al malato di Alzheimer e a chi se ne prende cura. 

Contestualmente il museo fiorentino, grazie a un finanziamento dai fondi Erasmus+ 2015, sta coordinando il progetto  MA&A Museums Art &Alzheimer’s che vede coinvolti altri musei europei tra cui la Butler Gallery a Kilkenny in Irlanda e il Lehmbruck Museum di Duisburg in Germania, tra i precursori quest’ultimo insieme al MoMA di attività rivolte a chi soffre di demenza senile. Obiettivi principali del programma sono la realizzazione di due corsi di formazione, uno rivolto a educatori museali ed educatori geriatrici che vogliano avviare programmi museali per persone con demenza e chi se ne prende cura; l’altro pensato per i familiari e i caregiver professionali sulle modalità di comunicazione con le persone con demenza attraverso l’arte.  

“Se la Regione Toscana può dirsi all’avanguardia in Italia per il numero di musei che offrono programmi per persone con Alzheimer – sottolinea Chiara Lachi – esistono anche altre realtà a livello nazionale e altre ancora stanno per essere avviate”. Su tutte cita la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma, tra le prime in Italia a partire nel 2011 con il progetto La memoria del bello tuttora in corso. Segno che anche nel nostro Paese l’interesse per questo settore sta crescendo.   

Monica Panetto

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