CULTURA

Il Beckett scrittore di lettere

Quello che sorprende nell’epistolario di Samuel Beckett, appena stampato da Adelphi, è il contrasto tra il Beckett autore teatrale e quello scrittore di lettere. Il primo dallo stile laconico e scarnificato fino ai limiti della incomunicabilità, il secondo, invece, per nulla in difetto di parole, ma comunicativo e personale fino allo spreco di sé. Il carteggio di Beckett, che conta almeno 15.000 lettere, è previsto da Aldephi in quattro volumi che ne riporteranno 2.500, altre 5.000 saranno citate nel cospicuo commento esplicativo che accompagnerà l’edizione italiana. Il primo volume copre il periodo 1929-1940 e mostra il giovane Beckett nel periodo della sua formazione intellettuale: dagli studi al Trinity College di Dublino all’amicizia parigina con Joyce e famiglia, il periodo londinese, il viaggio nella Germania nazista, i rapporti con l’Irlanda e i suoi genitori, letture, la passione per l’arte e per la letteratura italiana (il “mio Dante” scrive nel 1934) e, infine, la decisione di stabilirsi definitivamente in Francia.

In questa prima parte del carteggio non è difficile trovare la presenza di temi che saranno materia dei futuri capolavori degli anni Cinquanta e Sessanta, come l’attenzione alle figure marginali e fallite della società di Aspettando Godot o Finale di partita. In una lettera del 1935, riferendo al suo amico Thomas McGreevy della conversazione avuta con una certa Miss Costello, si legge: “Miss Costello mi ha detto: ‘Non hai una buona parola da dire a nessuno tranne che ai falliti’. Era da molto tempo che non mi dicevano una cosa tanto bella”.  Oppure i dialoghi anodini e ripetitivi dello stile beckettiano scoperti leggendo Dostoevskij e in cui si rivela la vacuità della condizione umana: “Sto leggendo i Demoni in una traduzione fetida. E comunque dev’essere scritto male e in modo sciatto anche in russo, pieno di frasi fatte e giornalese, ma il movimento, le transizioni. Nessuno muove come Dostoevskij. Nessuno ha mai saputo cogliere l’insensatezza del dialogo”. Ma possiamo trovare anche l’interesse per la figura del vecchio: i vecchi di Beckett, e si pensi a L’ultimo nastro di Krapp, sono sfatti e delusi, infantili, oggettivazioni del tempo in quanto distruzione e degradazione. Certo qui risuona il “vieillards dont les guenilles jaunes” di Les sept vieillards di Baudelaire: “Comincio a credere di soffrire, tra le altre cose, di gerontofilia. I vecchietti sciatti e rispettabili che vedi il sabato pomeriggio e la domenica a trafficare in giardino per dei lavoretti, o a far volare aquiloni per immense distanze al Round Pond di Kensington” ( 8 settembre 1935).

Interessanti anche le lettere scritte dal suo viaggio nella Germania del 1936. Dalle lettere sembra assente ogni giudizio esplicito sul regime nazista e, tuttavia, si legga il fulminante passo scritto in un lettera a Mary Manning  Howe, dopo aver visitato la Hamburger Kunsthalle: “Tutti i pulitori di cessi dicono Heil Hitler. I quadri migliori sono in cantina”. Ma anche alla vigilia di quella farsa che fu la conferenza di Monaco del settembre 1938, dove si decise la fine della Cecoslovacchia, Beckett scrive: “Ieri sera ho sentito Adolf il Paciere alla radio. E mi è sembrato sentir uscire l’aria - una foratura lenta”.

Per quanto Beckett non sia scrittore engagé  e nelle sue opere non ci sia traccia di impegno politico o sociale, questo non gli impedirà di prender partito di fronte ai fatti della storia; riferendosi alla scrittrice e anarchica inglese Nancy Cunard che stava raccogliendo testi ispirati alla guerra civile spagnola, il 3 settembre del 1937 scriverà: “Mi ha contattato Nancy Cunard, sta raccogliendo opinioni di scrittori sulla situazione in Spagna. Io ho risposto: ‘Vivalarepubblica’”.

Il carteggio del primo volume si chiude con il giugno 1940 e con l’occupazione tedesca. Gli anni della guerra per il cittadino irlandese saranno gli anni dell’adesione al gruppo Gloria SMH (His Majesty’s Service), una delle molte cellule di resistenza parigina che trasmetteva informazioni dalle zone occupate al SOE (Special Operations Executive), uno dei rami dei servizi segreti inglese: “Se ci sarà una guerra, come temo che succederà presto, mi metterò a disposizione di questo paese” (18 aprile 1939).

Beckett redigeva documenti in francese o traduceva in inglese quelli scritti da altri, in alcuni casi si spinse fino in Normandia e Bretagna per reperire informazione su porti e vie di comunicazione. Nell’agosto 1942 la cellula venne scoperta e Beckett, assieme alla compagna Suzanne Dechevaux Dumesnil, si salvò riuscendo a passare nella zona di Vichy mentre altri appartenenti alla cellula, tra cui il carissimo amico Alfréd Peron, finirono a Mathausen  o Buchenwald. Nel marzo del 1945 Beckett ricevette la Croix de Guerre per la sua attività resistenziale che, apparentemente innocua, era rischiosissima; in seguito dirà, nel suo abituale understatement e pudore, che rispetto ad altri aveva giocato a fare il boy scout (lo dice Deirdre Bair che per primo nel 1990 raccontò  di questi fatti).  Non era vero, naturalmente, se confrontato con lo scarso, o inesistente, contributo alla Resistenza dato da Sartre e poi esagerato dallo stesso nel dopoguerra, come scrive Olivier Wieviorka nella sua Histoire de la Resistance.

 L’apolitico Beckett sembrava comprendere che la sua visione dell’insensatezza dell’esistenza umana, al pari di Kafka o Leopardi, poteva meglio manifestarsi solo avendo come presupposto la libertà di espressione e non l’ottimistica e repressiva politica dei regimi totalitari.

Sebastiano Leotta

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