SOCIETÀ

Altro che schizzinosi, accettano di tutto

Nel nostro paese, pur essendoci meno giovani che in passato e anche meno laureati che in altri paesi, il tasso di disoccupazione giovanile resta elevato. Molti imputano il problema al fenomeno del mismatch, cioè al non allineamento tra offerta di laureati e domanda delle imprese. Lei da tempo si occupa di orientamento, può spiegarci qual è la situazione?

Per misurare il mismatch non bastano i tassi di occupazione, i settori, le forme contrattuali, devi sapere cosa fanno le persone. Servono dati sull’inserimento nel mercato del lavoro dei giovani per professione. Siccome questa cosa è abbastanza complicata, abbiamo preso i micro dati delle forze di lavoro isolando la popolazione laureata entro i 34 anni e il mercato del lavoro del Nord, perché se non guardiamo l’Italia a fette non capiamo niente.

Dopodiché abbiamo provato - per gruppi disciplinari - a vedere come funzionano i tassi di occupazione, disoccupazione e le forme contrattuali. Ma poi anche i tipi di professione svolta.

Intanto abbiamo visto quanta parte dei laureati di una determinata area svolgono professioni di tipo tecnico specialistico, o dirigenziale, e poi invece quelli che fanno gli impiegati, gli operai. Poi abbiamo cercato di vedere le professioni svolte. Noi parliamo di coerenza verticale e orizzontale. La coerenza verticale riguarda la "posizione” nelle professioni. Ad esempio se un laureato sta nei gruppi 1, 2, 3 dell’Istat (cioè dirigenti, imprenditori, professioni intellettuali scientifiche e di elevata specializzazione e professioni tecniche, che richiedono tutte una laurea). La coerenza orizzontale è qualitativamente definita dal "tipo” di professione svolta.

L’area delle professioni sanitarie registra un grado massimo di coerenza; discreta, invece, è l’incoerenza verticale nei laureati in Economia dove il lavoro c’è, ma spesso è poco qualificante. Questi sono fenomeni diffusi di downgrading del valore dei titoli di studio. Nelle aree umanistiche c’è molta dispersione orizzontale, ma sono lauree che aprono a molte possibilità di lavoro nel terziario e quindi lo sventagliamento di sbocchi professionali non è del tutto negativo. Significativo è stato l’aumento del numero di giovani laureati nel mercato del lavoro, in particolare la presenza femminile è parecchio superiore a quella maschile anche per facoltà scientifiche.

Ma c’è un problema di indisponibilità dei giovani a svolgere lavori non all’altezza?

Non è vero che i nostri giovani sono troppo choosy. In realtà è vero proprio il contrario: i nostri giovani accettano di tutto. Noi lo vediamo attraverso i nostri job placement: spesso dobbiamo forzarli a non accettare condizioni troppo sgradevoli. D’altra parte, facciamo degli sforzi (non sempre coronati da successo) per evitare di far transitare attraverso i nostri job placement proposte di lavoro troppo dequalificate. All’università di Torino abbiamo costruito servizi in buona parte dedicati ai tirocini, sia quelli curricolari che extracurricolari, cercando anche di stimolare gli operatori a entrare in rapporto con le aziende per far transitare anche proposte di lavoro.

C’è anche una responsabilità dell’università nella mancata coerenza tra domanda del mercato e offerta di laureati?

Sicuramente dovremmo riprogrammare i nostri corsi. Nell’area sanitaria, sono pochi i laureati rispetto al fabbisogno; in quella umanistica, anche se lo spettro delle professioni è più ampio, esiste un esubero macroscopico. Con il ciclo “tre più due” lo abbiamo accentuato. Abbiamo lanciato un mucchio di nuovi corsi proprio nell’area umanistico-letteraria allettando i giovani anche con delle etichette. Il corso di mediazione interculturale (tra l’altro con colleghi bravissimi) continua a raccogliere molte iscrizioni. Beh, non esiste questo mestiere. I mediatori sono stranieri, quindi non è il corso per fare il mediatore. Ma allora che cos’è? Abbiamo fatto molte di queste operazioni purtroppo. E ora che siamo costretti a ridimensionare (il Ministero fa chiudere i corsi di laurea) si rischia di aggravare il danno.

Ma allora i giovani dovrebbero scegliere la facoltà solo pensando al mercato del lavoro? E le passioni e gli interessi personali?

Personalmente ripeto sempre: “Qui ci sono dei numeri, dopo di che io posso anche decidere di iscrivermi a un corso di laurea che ha il 90% di disoccupati. Se ho una forte motivazione probabilmente sarò tra quelli che ce la fanno. Però devo sapere a cosa vado incontro”. Semmai siamo noi che dobbiamo preoccuparci di più di avere un’offerta didattica che li faccia poi uscire un po’ meno allo sbando.

Poi le scelte dipendono da tanti elementi. Il processo di orientamento (o disorientamento) è lungo, comincia dall’infanzia e i criteri di scelta sono diversi.

Adriana Luciano è docente di Sociologia dei processi economici del lavoro all’Università di Torino; responsabile scientifica dell’Atlante delle Professioni (atlantedelleprofessioni.it), un osservatorio delle professioni in uscita dai percorsi universitari. Ha curato, tra l’altro, Politiche del lavoro. Linee di ricerca e prove di valutazione, Franco Angeli, Milano 2002

L'intervista qui riportata, per gentile concessione degli autori e della rivista, è uno stralcio di un più lungo colloquio pubblicato sulla rivista Una città:

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012