CULTURA

Anche i cavatappi hanno un'anima. Il design in 60 oggetti

Ci sono oggetti che vediamo di continuo negli uffici, negli studi, in qualche appartamento. Li notiamo perché sono belli. O perché hanno una forma insolita, un colore sgargiante, una dimensione fuori scala; e pur mantenendo una linea distintiva, si ripetono e ritornano in luoghi diversi. Come l’attaccapanni a forma di shangai, la lampada da studio in alluminio, la sedia sinuosa in legno o quella impilabile in plastica, il posacenere a cubo, il portaoggetti con le rotelle. Li riconosciamo subito: sono oggetti che appartengono al nostro paesaggio domestico, a un ambiente emozionale fatto di impressioni e ricordi. Magari li abbiamo a casa, proprio quelli oppure delle copie somiglianti; che poi non sappiamo nemmeno essere copie, ignari che ci sia un originale. Perché sono prodotti continuamente rieditati, rivisti, reinterpretati, tanta la fortuna del loro disegno, dietro al quale pochi riconoscono la mano dell’autore. Se infatti proprio quegli oggetti li abbiamo visti mille volte, non abbiamo idea di chi li abbia pensati e progettati. A qualcuno non diranno molto nomi come Ron Arad, Mario Bellini, Achille Castiglioni, Joe Colombo, Michele De Lucchi, Tom Dixon, Gaetano Pesce; ad altri invece suggeriranno qualcosa, ma quasi per tutti sarà molto difficile associare progettista e oggetto progettato.

La mostra 20 Design Masters, che si è aperta pochi giorni fa a Padova, racconta proprio il legame fra designer e prodotto: 20 grandi foto di progettisti internazionali e tre oggetti da loro ideati sotto ciascuna immagine, a illustrarne la cifra stilistica. Ecco allora che la lampada lunare da comodino richiama finalmente il volto di Vico Magistretti, l’omino–cavatappi quello di Alessandro Mendini, lo sgabello del bar sotto casa si lega a quello di Stefano Giovannoni. Sono 60 oggetti, fra sedie, mobili, lampade, macchine da scrivere, giochi – perfino uno scopino da bagno – che appartengono a una collezione privata, un corpus di circa 2.500 oggetti dati in comodato d’uso dalla famiglia Bortolussi al Comune di Padova, e che vengono esposti in mostre temporanee, come questa, sempre in attesa di una esibizione permanente negli spazi del Castello Carrarese.

Charles e Ray Eames - Chaise (1948)

Questo piccolo estratto della più vasta collezione narra una storia del design che parte dagli anni Quaranta nell’America di Charles e Ray Eams e nel nord Europa di Arne Jacobsen, maestri che hanno sviluppato metodologie, ricerca dei materiali e delle forme, aprendo la strada a una nuova forma espressiva basata sulla rivisitazione degli oggetti quotidiani. Inizia con loro un dibattito sul confronto, e non più solo sullo scontro, fra arte e produzione industriale; protagonisti anche gli autori italiani degli anni Sessanta e Settanta, e i designer internazionali entrati in scena a partire dagli anni Ottanta, che hanno saputo affermare la propria distintività contro la tendenza all’omologazione della produzione di massa. Sintesi tra espressione creativa e obbedienza alle regole del mercato, il design contemporaneo fa proprio il mantra di una democraticità secondo la quale l’unicità si può replicare. Si ripete, pezzo dopo pezzo, la cura delle linee, la flessibilità, la logica, la semplicità d’uso e un substrato emozionale che rende l’oggetto più desiderabile.

Ma se per alcuni prodotti la democraticità è reale anche nel prezzo, non per tutti questa regola è applicabile. O almeno ciò implicherebbe una conoscenza del progetto tale da giustificare una spesa non sempre abbordabile, che spesso relega i pezzi più importanti alle stanze dei collezionisti. Da parte dei designer, quindi, farsi conoscere in relazione al proprio lavoro significa anche dare una ragione in più per motivare l’acquisto. È quello che con successo è riuscito a Philippe Starck, che del proprio personaggio ha fatto un brand, e del logo del proprio cognome un marchio registrato. Nella mostra di Padova, sotto alla sua foto troneggiano lo spremiagrumi a tre gambe (alieno quanto una navicella spaziale), la sedia Luigi XV in policarbonato trasparente e lo sgabello-gnomo: tre progetti famosissimi, che richiamano in modo immediato l’ironia e l’irriverenza del designer francese.

Non è stato riservato lo stesso trattamento, ad esempio, a Gaetano Pesce, i cui progetti in mostra rappresentano non tanto i suoi lavori più conosciuti quanto invece illustrano il senso della sala in cui sono esposti, dedicata alla predominanza della componente artistica rispetto a quella di mercato, attraverso il lavoro di tre maestri italiani: lo stesso Pesce, De Lucchi e Mendini. Il curatore, Massimo Malaguti, ammette che la scelta dei pezzi possa risultare opinabile, calibrata su una serie di necessità espressive o puramente spaziali non sempre condivisibili. Ma non toglie il senso di passeggiare fra questi oggetti, magari per rivedere su di un piedistallo il mangiadischi pop arancione (Bellini, 1968) e la poltrona gonfiabile in PVC (De Pas, D’Urbino, Lomazzi, 1967). Peccato solo non potercisi sedere.

Chiara Mezzalira

Marcello Nizzoli - Divisumma 24 (1956)

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