SOCIETÀ

Anche le badanti avranno la pensione. Forse

Un immigrato in pensione. Ai giorni nostri sembra una boutade senza senso, invece è quello che nel giro di pochi anni (entro il 2025) osserveremo in Italia. Gli stranieri, insomma, da qui a 11 anni attingeranno sempre di più al nostro sistema pensionistico, pur non interferendo (ancora) sul meccanismo nazionale del welfare che già fatica a rimanere in equilibrio.

In Italia gli stranieri vengono per cercare lavoro, si sa. L’Istat racconta di un’occupazione straniera in continua crescita (+83.000 unità), seppure a ritmi ridotti rispetto agli anni precedenti, mentre quella italiana cala senza sosta (-151.000 unità). E poiché l’Italia è un paese d’immigrazione ancora giovane,  gli occupati stranieri  - il 10,2% sul totale – attingono solo in maniera molto marginale ai trattamenti pensionistici, in percentuale inferiore all’1% (dati Idos). Usufruiscono invece in modo più esteso delle prestazioni di sicurezza sociale legate alla famiglia, come gli assegni per il nucleo familiare e la maternità obbligatoria, anche se in proporzione inferiore agli italiani (fra il 5% e l’11%). 

Le previsioni da qui a dieci anni si discostano però in modo evidente dalla situazione odierna, preludendo a uno scenario in cui i lavoratori stranieri, che oggi contribuiscono al sistema pensionistico italiano ma usufruiscono in modo limitato delle pensioni, entreranno a loro volta in età pensionabile e il ciclo lavoro-pensione si normalizzerà.  Si stima infatti che se nel 2010 gli ingressi in età pensionabile erano composti per l’1,5% da parte di stranieri residenti, nel 2025  la percentuale salirà al 6%, passando da  circa 9.400 pensionandi stranieri a quasi 50.000. Poiché però popolazione straniera per quell’anno inciderà ancora solo per il 12,3% sul totale dei residenti, il differenziale pensionistico fra le due componenti della società certamente si ridurrà, ma senza infierire troppo duramente su di un sistema pensionistico nazionale comunque traballante. 

I dati emergono dalla ricerca Immigrati e sicurezza sociale: il caso italiano, elaborata su invito della Commissione europea a tutti gli stati membri per mezzo del  programma European Migration Network. Il caso italiano passa attraverso la mappatura delle modalità d’accesso degli stranieri non comunitari ai vari settori previdenziali di Inps, Inail e Servizio sanitario nazionale: il quadro che ne esce è di una popolazione lavorativa mediamente più giovane di quella italiana (quasi il 60% ha meno di 40 anni) e sostanzialmente in buona salute, quindi meno assidua nell’usufruire dell’assistenza medica nazionale. I lavoratori non comunitari provengono per quasi un terzo dall’Albania, per un quinto dal Marocco, e poi da Cina, India, Bangladesh, Egitto, Moldova, Ucraina, Perù e Filippine. Queste ultime quattro nazionalità si distinguono per l’accentramento  delle attività nell’ambito del lavoro domestico, fortemente soggetto all’impiego in nero, mentre la Cina, il Bangladesh e l’Egitto registrano iniziativa nel settore imprenditoriale. È molto bassa l’incidenza straniera (meno del 2%) in alcuni comparti del terziario come la pubblica amministrazione, il credito, le assicurazioni e l’istruzione; si porta sul 16,5% negli alberghi e nella ristorazione, sul 18,9%  nelle costruzioni, fin a ottenere quasi un oligopolio nei  servizi domestici e di cura, nei quali è impiegato il  76,8%, quasi interamente costituito da donne.

Gli stranieri soffrono però anche di un tasso di disoccupazione maggiore rispetto agli italiani; di conseguenza, l’Inps registra una fruizione consistente delle indennità di disoccupazione e della cassa integrazione. Senza contare che oggi i lavoratori non comunitari che rimpatriano  senza aver maturato il diritto alla pensione perdono tutti i contributi versati, che rimangono quindi nelle casse dell’Inps. Inoltre, avendo elevato a 20 anni il requisito contributivo minimo per il diritto alla pensione di vecchiaia, anche la “riforma Fornero” ha duramente colpito gli stranieri, frequentemente caratterizzati da una carriera lavorativa frammentata e non di rado legata all’ambito del lavoro nero.

Le condizioni lavorative più svantaggiate degli stranieri si riflettono sulla retribuzione netta mensile, più bassa di un quarto rispetto a quella degli italiani. I contributi pensionistici pagati dagli immigrati sono quindi calcolati su di una retribuzione media molto inferiore a quella degli italiani e, come conseguenza, in futuro anche la loro pensione sarà coerentemente più bassa: i pensionati stranieri corrono insomma il serio rischio di allargare le schiere dei poveri. Saranno probabilmente in buona compagnia del corposo gruppo, purtroppo in espansione, dei giovani precari italiani, entrati solo molto tardi nel mondo del lavoro, e costretti ad accontentarsi di salari bassi.

Chiara Mezzalira

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