UNIVERSITÀ E SCUOLA

Atenei, la riforma impossibile

"Professore universitario di ruolo, scettico avvenire università italiana, offresi per incarico dirigenziale grande società o ente": è il 1969 e Paolo Prodi, appena ottenuta la cattedra di storia moderna a Bologna, lancia una provocazione pubblicando questo annuncio anonimo su un importante quotidiano milanese. La boutade suscita reazioni violente da parte di molti accademici, che vedono nella candidatura del disilluso professore (reale o fittizia poco importava) un simbolo della decadenza degli atenei italiani, privati del loro ruolo tradizionale e succubi della fascinazione del mondo industriale.

L'aneddoto è ricordato dall'autore in Università dentro e fuori (Il Mulino, 2013), raccolta di saggi, articoli, interventi in cui lo storico ed ex rettore ripercorre gli ultimi quarant'anni delle politiche per l'università nel nostro paese. L’analisi di Prodi, unita ad excursus su temi di storia accademica sempre ricondotti all’attualità, abbraccia decenni di non-politica, una successione di riforme mancate che hanno prodotto una situazione non lontana da quella che il falso annuncio prefigurava tanto tempo prima.

Il "dentro" e "fuori" che Prodi racconta è proprio la dialettica tra la visione dall’interno dell'università-istituzione e quella esterna del soggetto inserito in una rete di rapporti con il mondo politico, burocratico, produttivo: un'alleanza inamovibile nel rifiutare qualunque novità potesse restituire agli atenei una reale autonomia e capacità di produrre e insegnare il sapere di base; orientando il sistema, invece, verso una visione sempre più orientata a farne appendice ministeriale, proliferazione di piccoli o grandi centri a sovranità limitata, soggetti ai capricci e ai venti incostanti dei compromessi tra correnti partitiche e lobby accademiche.

Un processo che Prodi ha vissuto in prima persona a iniziare dagli anni Settanta, come capo dell'ufficio studi del ministero dell'istruzione e poi come rettore dell'università di Trento. Due esperienze che l'autore descrive come occasioni mancate: tentativo fallito, la prima, di una profonda riforma del dicastero, osteggiata con successo dalla saldatura tra dirigenti e politici del tutto refrattari a perdere il controllo della macchina amministrativa; speranza delusa, la seconda, di creare un ateneo su basi davvero nuove, con un'autonomia piena non solo dal controllo statale, ma anche dai potentati locali.

Prodi, nella durezza dei suoi giudizi, non distingue le responsabilità per collocazione politica: attribuisce la rinuncia a un modello di ateneo in grado di autogovernarsi, ed eccellere in forza della libertà concessagli, tanto alle alchimie centriste degli anni Settanta quanto alle politiche degli opposti schieramenti della Seconda Repubblica. Così condanna, ad esempio, l’insieme delle leggi Bassanini, considerate il trionfo dello spoil system che, lasciando i vertici amministrativi in balia dei valzer della politica, ha indebolito (anche all'università) l'ossatura del management pubblico rendendolo prono ai giochi partitici. Ce n'è anche per la riforma berlingueriana del 3+2, vista come caricatura del modello anglosassone, inversione della collocazione logica di discipline fondamentali da esami propedeutici a specializzazioni del biennio; e, insieme, cedimento alle pressioni più retrive del mondo dell'industria e delle professioni, finalizzate a suo parere a favorire saperi ipertecnici, snaturando la funzione culturale e generalista degli atenei.

Meglio, per Prodi, ipotizzare un'istituzione superiore per la formazione professionale, magari collegata alle università ma distinta da esse: un altro dei progetti a lungo sognati dal docente e mai presi in considerazione (in primis dallo stesso mondo accademico). Nello stesso solco si colloca la proposta di corsi di diploma professionalizzanti, frutto di convenzioni tra università, istituti superiori ed enti locali. Gli strali di Prodi non risparmiano la riforma Gelmini né il sistema di valutazione, considerato burocratico e vincolante, da sostituire con giudizi ex post sulla produzione scientifica e sulla didattica; né si salva il reclutamento dei professori, che nella sua visione dovrebbe consentire un continuo flusso bidirezionale dei migliori docenti in un sistema integrato scuola - enti di ricerca - atenei - enti culturali.

La conclusione dell'analisi di Prodi è cupa. Il sistema accademico italiano sta conoscendo un tramonto comparabile a quello vissuto dalle università italiane nel Seicento: una perdita di libertà che per l'autore rispecchia il ruolo sempre più marginale che gli atenei rivestono nella società occidentale.

Martino Periti

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