SCIENZA E RICERCA

Cancro al seno: se i globuli bianchi diventano nemici

La ricerca sul cancro al seno fa un passo avanti. E per la prima volta si scopre che a favorire lo sviluppo di metastasi tumorali sono anche i globuli bianchi (solitamente preposti a un ruolo di difesa immunitaria), attraverso la produzione di una proteina detta osteopontina. A dimostrarlo uno studio tutto italiano pubblicato su Cancer Research

Da tempo il gruppo di ricerca, e in particolare la sua componente milanese, oltre alla cellula tumorale studia anche il microenvironment, cioè l’ambiente circostante e il modo in cui la cellula interagisce con esso. Un ambiente composto da fibroblasti, da cellule del sistema immunitario, dalla matrice extracellulare, un reticolo di macromolecole tra cui le proteine dette “matricellulari”. “Abbiamo concentrato la nostra attenzione proprio su alcune di queste proteine – spiega Mario Paolo Colombo dell’istituto nazionale dei tumori di Milano che ha partecipato allo studio – che hanno un’attività regolatoria capace di modulare sia le interazioni con il tumore, sia le interazioni con le cellule del sistema immunitario”. Ormai da 15 anni i ricercatori milanesi studiano l’osteonectina e negli ultimi tre anche l’osteopontina, due proteine cugine.

L’osteopontina, in particolare, può essere prodotta dalle cellule tumorali e secreta. La proteina, in questo modo, aiuta le cellule tumorali a sopravvivere in ambiente ostile, quando ad esempio migrano dalla sede del tumore iniziale alla metastasi. Ma, e qui sta la novità, l’osteopontina può essere prodotta anche dai globuli bianchi che producono la proteina ma non la secernono, la trattengono al loro interno inducendo un’attività immunosoppressiva e inibendo in questo modo la risposta immunitaria. “Attraverso l’analisi di metastasi al polmone in pazienti con cancro al seno – illustra Colombo – abbiamo osservato che questi globuli bianchi si trovano nel sito della metastasi. Qui provvedono a preparare un ambiente in cui agiscono in maniera immunosoppressiva, proteggendo in questo modo le cellule tumorali da un eventuale attacco del sistema immunitario”.  

Di fatto dunque la stessa proteina prodotta dalla cellula tumorale o dal globulo bianco, in maniera secreta e all’interno della cellula, convergono su un’unica funzione che è quella di proteggere la cellula tumorale o in un ambiente ostile o dall’attacco dei linfociti. Ora si tratta di studiare, non solo sul modello animale, in maniera più meccanicistica e molecolare il modo in cui l’osteopontina attiva l’azione immunosoppressiva all’interno dei globuli bianchi. 

Si può pensare a nuove terapie? “Trattandosi di una proteina prodotta in maniera ubiquitaria, anche da alcune cellule staminali ad esempio, in futuro si dovrebbe guardare alla possibilità di inibire la sua funzione in maniera selettiva nelle cellule coinvolte nel processo tumorale. Ma a questo si potrà pensare solo dopo aver chiarito il meccanismo molecolare”.  

Se si considera che il cancro al seno è il tumore più diffuso nelle donne, sia nei Paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo, si intuisce l’importanza di ogni nuova acquisizione. Lo studio italiano non è l’unico, solo negli ultimi mesi. Se da tempo ad esempio era risaputo che la mutazione del gene PALB2 predispone al tumore al seno, per la prima volta con una ricerca pubblicata su The New England Journal of Medicine un team internazionale coordinato dall’università di Cambridge quantifica il rischio e stabilisce che una donna al di sotto dei 40 anni con questa mutazione genetica ha una probabilità otto, nove volte maggiore di ammalarsi e da sei a otto volte se di età compresa tra i 40 e i 60. E ancora, parlando in questo caso di terapie, un’indagine compiuta all’università di Stanford e pubblicata sul Journal of the American Medical Association esamina i tassi di sopravvivenza dopo i tre interventi più comuni in caso di cancro al seno: la doppia mastectomia, la mastectomia a un solo seno e la rimozione del solo tessuto canceroso unita a radioterapia. Lo studio, condotto su quasi 190.000 donne californiane che hanno ricevuto una diagnosi di tumore a un seno tra il 1998 e il 2011, dimostra che la doppia mastectomia (utilizzata in misura sempre più frequente nel periodo considerato) non è associata a una mortalità inferiore rispetto alla chirurgia conservativa del seno. 

Le ricerche si inseriscono in un contesto che a livello globale, stando ai dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, vede nel 2011 più di 508.000 donne morte a causa della malattia. I tassi di incidenza, cioè i nuovi casi, variano di molto da zona a zona: secondo dati del 2008, dai 19 ogni 100.000 donne in Africa orientale a quasi 90 in Europa occidentale. Il tasso di sopravvivenza è dell’80% o anche superiore in Paesi come il Nord America, la Svezia e il Giappone, del 60% nelle regioni a basso reddito e inferiore al 40% nelle aree a basso reddito. Situazione, evidenzia l’Oms, che si spiega con la mancanza in questi Paesi di programmi di diagnosi precoce e di strutture di cura adeguate. Nel nostro Paese, in particolare, circa un tumore maligno su tre nelle donne è un carcinoma mammario e nel 2015 si stimano circa 57.000 nuovi casi, al secondo posto dopo il tumore del colon-retto. 

“Ecco dunque che ogni più piccola scoperta – conclude Colombo – si inserisce in un puzzle più ampio in cui la tessera inserita a Milano potrebbe servire a Cambridge, quella aggiunta in Cina potrebbe essere utile in Texas”. Solo mettendo ogni pezzo al proprio posto si potrà arrivare al più presto alla puntuale comprensione dei meccanismi molecolari che causano il cancro al seno e, dunque, anche all’identificazione di nuove strategie terapeutiche.

Monica Panetto

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