SOCIETÀ

L'attualità di Cesare Beccaria, 250 anni dopo

Ricorrono quest'anno i 250 anni dalla stesura del celeberrimo "Dei delitti e delle pene" che Cesare Beccaria scrisse nel corso del 1763 e pubblicò l'anno seguente, e pochi, forse nessun testo più di quel breve trattato possono vantare un'influenza tanto profonda e duratura sul diritto penale. Se oggi la tortura è ufficialmente ripudiata e la pena di morte abbandonata da moltissimi paesi, lo si deve in parte considerevole a una trasformazione radicale nel modo di pensare il ruolo delle leggi e della pena che quelle pagine per prime innescarono. Ma forse neppure l'autore, che pure si fidava "con riserva" dell'amministrazione austriaca, di cui fu funzionario, tanto da cercare uno stampatore al di fuori dei suoi confini, a Livorno, e pubblicare anonima la prima edizione (si sarebbe intestato la seconda, di due anni successiva, quando il libro spinto dall'ammirazione di Voltaire era ormai famoso) avrebbe mai immaginato che, fra le ragioni della sua permanente attualità, a due secoli e mezzo di distanza, ci sarebbe stata la reticenza da parte del suo stesso paese a inserire lo specifico reato di tortura nel proprio codice penale. Nonostante la ratifica, ormai quasi tre decenni fa, della Convenzione delle nazioni Unite contro la tortura, che lo prevede esplicitamente, e gli obblighi che provengono dai trattati internazionali, come la Convenzione europea dei diritti dell'uomo (1987), verso i quali siamo inadempienti; e nonostante che, come sottolinea in ultimo il presidente degli avvocati penalisti, di quel reato ci sia bisogno. Torniamo a Beccaria, allora. 

“Poche altre opere hanno avuto una ripercussione così grande nel campo della cultura italiana e straniera e hanno suscitato tanto entusiasmo quanto il libretto Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Non c’è stato, dopo di lui, studio di diritto penale che dalla sua opera non abbia preso spunto, sia per svilupparne ulteriormente le idee, sia per combatterle, sia per temperarle e modificarle”, scriveva Ugo Spirito nella sua “Storia del diritto penale italiano”, già nel 1925. La conoscenza e la comprensione del diritto penale non possono prescindere dalla conoscenza del libro di Beccaria e dal dibattito che su di esso si è innestato.

Per vero, come è ampiamente noto, è difficile considerarlo espressione del solo pensiero del suo autore. "Dei delitti e delle pene" in realtà è il distillato del dibattito sviluppatosi all’interno del circolo culturale del Caffè - i cui esponenti più in vista erano i fratelli Verri, Pietro e Alessandro - che si ispirava al pensiero degli illuministi francesi, e rappresenta il riflesso più maturo e meditato della cultura illuministica in rapporto al diritto penale. 

È proprio in seno alla compagine del Caffè che sorse l’idea del libro e l’occasione per la sua stesura fu data dalla circostanza che Alessandro Verri ricopriva in quei tempi (1763) l’ufficio di protettore dei carcerati e aveva quindi immediata e dura esperienza delle tristi conseguenze cui conducevano il diritto e la procedura penali allora dominanti. L’opera, quindi, non è tanto la creazione di un singolo quanto l’espressione di un pensiero condiviso da un’ampia schiera di intellettuali del tempo. Beccaria, tuttavia, ne diventa indiscusso portavoce, consapevole ed appassionato.

Non è questa la sede per ripercorrere il pensiero illuministico e la teoria del contratto sociale, applicata al diritto penale. Qui è necessario limitarsi a mettere in evidenza le influenze peculiari di tale teoria nella costruzione del diritto penale moderno e contemporaneo, ripercorrendo i postulati di fondo sui quali si è basata tale costruzione.

Non è possibile dimenticare che mentre il libro di Beccaria enuncia i principi che dovranno caratterizzare un nuovo diritto penale, bisognerà attendere i primi grandi sistematici, ed in particolare Gaetano Filangeri e Francesco Carrara, per avere la delineazione di un sistema penale compiuto, fondato su quei principi. Tale constatazione, tuttavia, non fa venir meno il valore dirompente dei principi affermati da Beccaria ed il significato che hanno assunto nella costruzione di qualsiasi pensiero penalistico. Essi rivestono a tutt’oggi una tale attualità da poter affermare, senza tema di smentita, che dagli stessi non si può in alcun modo prescindere. 

Innanzitutto, il diritto di punire viene fondato sul contratto sociale: ne deriva l’esigenza che il diritto penale sia fondato sulla sola legge penale, a sua volta  ispirata alla massima utilità sociale ed alla salvaguardia dei diritti dei singoli. Il giudice penale è strettamente vincolato alla legge “che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale”, e non può mai procedere ad un adattamento o a un temperamento della legge: egli si deve limitare ad una pura e semplice applicazione (par. IV e VII). Solo un diritto penale ricondotto alle sue ragioni laiche e retto dal principio di legalità è in grado di garantire la tutela dell’individuo e della sua libertà (Vassalli).

La decisa affermazione del principio di legalità, con i conseguenti corollari della determinatezza e della conoscibilità delle norme, assurge così a principio ispiratore di un sistema penale improntato a criteri di ragione e di umanità, nel quale la libertà individuale può essere limitata, solo in quanto tale limitazione sia strettamente necessaria ad un’ordinata convivenza civile. Reato non può essere altro che la lesione di un interesse che la società ha l’obbligo di difendere per la propria conservazione e per assicurare l’esercizio dei diritti individuali Quanto alla misura dei delitti unico criterio possibile è, dunque, quello del danno della società. Qualunque altro criterio è infondato o impossibile a seguirsi, soprattutto per l’imperscrutabilità dell’intimo animo del delinquente (par. XXIV). Un principio, quest’ultimo, in grado di porre le fondamenta di un modello penale liberale, il diritto penale del fatto, tagliando “con un colpo netto il nodo che da millenni aveva unito con mille fili peccato e delitto” (Marinucci) (1/continua)

Elisabetta Palermo Fabris

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