UNIVERSITÀ E SCUOLA

Cina, il governo rottama gli atenei generalisti

Sono circa 7 milioni e 270.000 i giovani cinesi laureati nel 2014: un numero record, cresciuto esponenzialmente nel corso degli ultimi anni e legato al boom economico che sta sperimentando il paese asiatico.  Di contro, sembra che oggi, diversamente da quanto accadeva pochi anni fa, nemmeno una laurea garantisca più un posto di lavoro, nemmeno in Cina. È rilevante il tasso di disoccupazione, che si attesta  attorno al 15%, in parte imputabile, secondo il governo cinese, a un disallineamento fra l’offerta formativa superiore e quella del mercato del lavoro. La crescita quantitativa nel campo dell’educazione superiore cinese sembra infatti non incontrare le aspettative dell’offerta dell’impiego, che lamenta un’importante mancanza di figure tecniche altamente specializzate. 

Con l’obiettivo di fronteggiare la situazione, il vice ministro per l’educazione Lu Xin ha annunciato la conversione in politecnici, o in scuole superiori per l’istruzione professionale, di circa 600 atenei generalisti. I nuovi istituti superiori dovranno preparare nuove generazioni di ingegneri elettronici, dei materiali, aeronautici, dell’energia, biotecnologi, chimici e figure strategiche in ambito aziendale. È soprattutto il campo manifatturiero a richiedere talenti da impiegare in prima linea in mansioni altamente specializzate, purtroppo non generalmente ricercate dagli studenti e dalle loro famiglie, culturalmente portati a considerare le professioni tecniche come qualifiche di serie B. Un gap culturale non secondario e difficile da colmare soprattutto nelle aree rurali e fra le famiglie di operai e braccianti, per i quali una laurea tradizionale s’identifica ancora con un sicuro riscatto per la generazione successiva. In realtà la situazione è radicalmente cambiata: l’agenzia Reuters riporta che nel 2013 circa l’80% dei laureati in istituti superiori tecnici hanno trovato lavoro, mentre solo due terzi degli altri laureati se ne sono assicurati uno. I primi, inoltre, godono anche di un salario iniziale mediamente superiore alla media – 3.291 yuan (530 dollari) al mese – contro i 3.157 yuan guadagnati mensilmente dagli studenti usciti dalle migliori università cinesi.

Nonostante però l’urgenza della questione e l’evidente mutamento economico e sociale, il passaggio culturale si configura necessariamente più lento. Anche per questo motivo il governo cinese prevede una gradualità nell’operazione di riconversione delle università, che però inizierà già quest’anno con 150 atenei già candidati al primo programma pilota.

Già a partire dal 2011 il governo cinese aveva dato una sferzata al sistema educativo superiore, riducendo di fatto molti corsi considerati “irrilevanti” per il mondo del lavoro e per lo sviluppo della società, o perché offerti in quantità non commisurata ai bisogni concreti. Ne fanno allora le spese, fra gli altri, molti corsi di lingue e di cinese, di business management e di legge, ma anche di information technology. Nel 2013 il ministro per l’Istruzione ha negato l’autorizzazione a più di 250 corsi in circa 60 atenei, premendo per l’istituzione di corsi che concretamente potessero contrastare il dilagare della disoccupazione fra i laureati. Nessuna pietà, quindi per i 15 corsi di laurea in Marxismo ed economia applicata, offerti dalle università di Shangai.

Persegue il medesimo obiettivo – l’arricchimento del panorama professionale di area tecnica -  un’altra iniziativa che il governo cinese intraprende a partire da quest’anno: si tratta della riforma  del Gaokao, il test nazionale di ammissione all’università, grande determinante nelle scelte di vita che gli studenti cinesi si trovano ad affrontare già a 16 anni. Se fino ad oggi il Gaokao è sempre stato un unico test, uguale per tutti, presto invece si dividerà in due diverse modalità: una per gli studenti con inclinazioni tecniche, l’altra per studenti più tradizionalmente orientati. Il Gaokao tecnico, quindi, indirizzerà verso studi superiori coerenti, e in modo specifico nei 600 istituti che dovranno essere riconvertiti in politecnici e che dovranno quindi rivedere completamente la propria offerta formativa.

In breve, la riforma del sistema educativo cinese ha l’imperativo di fornire impiego tappando le falle di un’attività manifatturiera che ancora troppo si rivolge all’estero per coprire posizioni strategiche; questo, in un Paese dove l’accademia è l’aspirazione dei genitori, e l’impiego tecnico solo un ripiego di seconda classe. Con ogni probabilità, le famiglie dei giovani studenti cinesi dovranno farsene una ragione.

Chiara Mezzalira

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