SOCIETÀ

Cina, la sofferenza del lavoro

In Cina, la gestione di aziende che arrivano a impiegare 400.000 persone – che entrano, lavorano ed escono dal sistema, sempre in un’ottica produttiva di just in time – significa controllo ferreo, del lavoro e dei lavoratori: ecco perché la struttura interna è fortemente gerarchica (capi-catena, capisquadra, capireparto e poi a salire verso i diversi livelli di dirigenti e direttori) e dotata di misure di controllo simili a quelle aeroportuali. Le fabbriche “di rappresentanza” sono fornite, poi, anche di luoghi di svago (campi da calcio, luoghi di ritrovo per bere e mangiare, cinema) ma la pressione e la competizione interna (i diversi stabilimenti sono fortemente isolati, controllati dall’alto e continuamente messi in gara) rendono impossibile la conduzione di una vita normale, sotto ogni aspetto: moglie e marito non dormono nemmeno vicini. Il tasso di suicidi è quindi molto elevato: nel solo 2010 sono stati in diciotto, alla Foxconn, a buttarsi dalla finestra del dormitorio o a tagliarsi le vene. Tra questi anche dei giovanissimi, nemmeno maggiorenni. La loro presenza in fabbrica è possibile grazie ad accordi che l'azienda stringe con i governi locali e gli istituti professionali, volti ad agevolare il tirocinio formativo degli studenti nelle fabbriche e che, non essendo coperto da regolare contratto di lavoro e relativo piano di assicurazione sociale, si trasforma, nella maggioranza, se non nella totalità dei casi, in sfruttamento legalizzato. 

La protesta silente e tragica del suicidio si accompagna, come è successo lo scorso settembre e continua a succedere, a rivolte rumorose e mediatiche: veri e propri scioperi, lanci di bottiglie dagli ultimi piani delle fabbriche, minaccia di suicidi di massa al grido di “suicide is murder” che obbligano gli amministratori locali a fare da intermediari e che hanno portato il più delle volte negli scorsi decenni al raggiungimento di conquiste lavorative. Le stesse cronache del New York Times danno conto in questi giorni di alcuni segnali di cambiamento che sembrano farsi strada nella direzione del miglioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche.

Nel 2005 ad Hong Kong è stata fondata la SACOM (l’acronimo sta per Students and Scholars Against Corporate Misbehavior ma in cinese significa “uccidi le corporazioni”), un’organizzazione non governativa nata da un movimento studentesco, che si impegna per il riconoscimento dei diritti elementari del lavoratore ed ha organizzato diverse manifestazioni proprio negli Apple store, perché la Apple è il principale cliente della Foxconn degli ultimi tre anni.

Sono sempre opera di studenti e di giovani professori, provenienti da circa venti università, gli studi pubblicati sul funzionamento della Foxconn, in cui si analizza la condizione lavorativa dei mingong (uno su tutti “Cina la società armoniosa” di Pung Ngai dell’università di Hong Kong, Jaca Book editore). Sono stati redatti a seguito di esperienze dirette degli universitari nelle fabbriche, come lavoratori infiltrati, che hanno permesso loro di venire a contatto con i lavoratori a cui hanno chiesto testimonianze, somministrato questionari, e anche dato una visione esterna perché possano cercare una loro identità.

Quel che emerge è infatti l’avvenuta formazione di una nuova classe operaia proprio in un periodo storico e politico in cui il concetto di classe è considerato obsoleto, e pertanto la classe dei mingong è come fosse invisibile, non avendo essa stessa, per prima, consapevolezza di sé. Scrive Pung Ngai: “Dopo la liberazione della Cina nel 1949, l’intera popolazione fu chiamata in causa in termini di identità di classe e di condizione sociale secondo una classificazione proveniente dallo scenario precedente alla liberazione. […] Dopo le riforme socialiste del 1955 e del 1956 queste categorie vennero semplificate in modo radicale e ridotte a due principali identità cittadine di classe: i quadri e gli operai. […] Dopo il movimento del 4 giugno [1989] e soprattutto dopo il viaggio a sud del 1992 a Shenzen [di Deng Xiaoping] la classe operaia cinese, che negli anni precedenti era stata costruita dalla politica e poi fornita di un contenuto strutturale dalle imprese di stato e quelle a proprietà collettiva, che avevano creato i posti di lavoro e le condizioni sociali della classe, fu obbligata a scomparire. […] Ma il paradosso della storia della classe operaia in Cina è che nel preciso momento di questa denuncia, una nuova forza lavoro è andata formandosi rapidamente grazie ai lavoratori migranti”.

Il processo pare irreversibile e la volontà di trasformarsi in uno stato capitalista, industrializzato e contemporaneo è forte, pur conservando dei tratti estremi tipici della cultura cinese. Risulta emblematica la foto che lo scorso novembre ha fatto il giro del mondo: immortala la casa di una coppia di vecchietti che a Wenling, nella provincia dello Zhejiang, si erano rifiutati di firmare il contratto per la demolizione. L’abitazione è stata letteralmente inglobata nell’autostrada obbligando i proprietari ad abbandonarla. La Cina, insomma, non si ferma. (2/fine)

Valentina Berengo

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