SCIENZA E RICERCA

Creata, nei topi, una falsa memoria

L’articolo firmato alla fine dello scorso mese di luglio su Science dal biologo giapponese Susumu Tonegawa, premio Nobel per la medicina nel 1987, e da un gruppo di suoi collaboratori presso il Centro Riken del Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Cambridge, è chiaro fin dal titolo: Creating a False Memory in the Hippocampus. Siamo riusciti a creare una falsa memoria nell’ippocampo (di alcuni topi). 

Tonegawa è un immunologo che è stato premiato a Stoccolma un quarto di secolo fa per i suoi studi nel campo del riarrangiamento genico delle cellule. Da qualche tempo, tuttavia, si occupa di neuroscienze. Insomma, studia la genetica dei processi cerebrali. E l’esperimento di cui ha pubblicato i risultati è molto elegante. Foriero di nuove conoscenze scientifiche. Ma capace anche di alimentare, non poco, il dibattito sulla cosiddetta neuroetica.

Non entriamo nei dettagli tecnici. Diciamo solo che Tonegawa e i suoi hanno posto alcune cavie (topi da laboratorio) geneticamente modificate in un ambiente tranquillo (chiamiamolo ambiente A) e hanno osservato quale gruppo di neuroni (chiamiamolo gruppo A) si attivavano per memorizzare il luogo. La manipolazione genetica consente sia di individuare i gruppi di neuroni implicati nel processo di memorizzazione, sia di attivarli dopo, quei neuroni, a ricordo sedimentato, con un segnale luminoso. 

I ricercatori del Riken Center hanno poi trasferito le cavie in un altro ambiente (chiamiamolo ambiente B), molto diverso e hanno somministrato loro una piccola, ma spiacevole, scossa elettrica. Di nuovo si sono attivati dei neuroni (gruppo B) che hanno memorizzato la brutta esperienza. Nel medesimo tempo Tonegawa e i suoi hanno lanciato l’impulso ottico che ha attivato i neuroni del gruppo A, quelli che ricordano l’ambiente A. 

I ricercatori hanno poi trasferito le cavie in un nuovo ambiente (ambiente C) e loro, i topolini, se ne sono stati beatamente tranquilli. Infine Tonegawa e collaboratori hanno riportato le cavie nell’ambiente A. A quel punto i topi hanno mostrato segni di paura. Si sono ricordati della brutta esperienza (attivazione neuroni del gruppo B) in un ambiente (ricordato dai neuroni del gruppo A) in cui quell’esperienza non era stata consumata realmente. Insomma, Tonegawa e gli altri ricercatori (tra cui il giovane italiano Michele Pignatelli) hanno indotto, come recita il titolo del loro articolo, una falsa memoria nell’ippocampo dei topi. 

Nessuno c’era riuscito prima. 

O, almeno, nessuno era riuscito prima a dimostrarlo. 

Il valore scientifico dell’esperimento è chiaro. Si iniziano a comprendere alcuni meccanismi fini di quella costellazione di processi che chiamiamo memoria. E, soprattutto, si riesce a intervenire dall’esterno sulla memoria e a manipolarla. Fino a indurre falsi ricordi. Anzi, fino a indurre uno specifico falso ricordo. 

Le implicazione etiche dell’esperimento del gruppo di Susumu Tonegawa sono fin troppo evidenti. “È un campanello d’allarme – ha dichiarato a Helen Shen, della rivista inglese Nature, James Giordano, leader del gruppo di studio sulla neuroetica della Georgetown University di Washington – perché ci dà l’idea che possiamo manipolare il cervello per controllare la mente”. 

In realtà occorrerebbe sottolineare che l’esperimento dimostra che sta diventando possibile manipolare il cervello a livello fine – cellulare o persino molecolare – per controllare la mente. Perché, di tentativi di controllare dall’esterno la mente delle persone (e delle cavie), noi umani ne conosciamo da tempo. La storia dimostra che molte persone, sottoposte a tortura fisica o psicologica, hanno finito per credere (o, se si vuole, per ricordare) cose che non erano mai avvenute. E magari autoaccusarsi, con convinzione, di atti mai commessi. Ma di questi tentativi, magari grossolani eppure efficaci, sono piene le cronache di ogni tempo. 

Come ricorda Helen Shen, tentativi recenti e molto meno rozzi di controllare la mente attraverso la manipolazione del cervello hanno avuto notevole successo: nel 2011, per esempio, con un lavoro su  Behavioral Neuroscience, Pitman e altri hanno dimostrato che con alcune sostanze chimiche, e dunque in maniera meno drammatica e violenta e più specifica, è possibile cancellare la memoria di eventi angosciosi; nel 2013 con un lavoro su Nature Neuroscience, Barack e altri hanno dimostrato che è possibile inibire il desiderio di alcol nei roditori; mentre nel 2012, sempre su Nature Neuroscience, Arzi e altri hanno dimostrato che è possibile addirittura indurre l’apprendimento, sia pure non particolarmente sofisticato, sugli uomini durante il sonno. 

Il lavoro di Susumu Tonegawa non costituisce, dunque, una novità assoluta in neuroetica. E neppure in etica. È l’antica vecchia questione della doppia faccia dell’applicazione della conoscenza. Vale per la pietra scheggiata, che Homo habilis poteva usare tanto per tagliare le pelli, vestirsi e proteggersi dal freddo quanto per uccidere un altro membro della sua tribù. Vale per la chimica, che è possibile utilizzare per confezionare un’aspirina e combattere la febbre o per confezionare gas venefici, come quelli utilizzati forse di recente in Siria. Vale per le nuove conoscenza neuro scientifiche.

Possiamo pertanto considerare l’esperimento di Susumu Tonegawa come un campanello, non necessariamente d’allarme. Nel momento in cui, in America come in Europa, sono stati varati programmi miliardari per comprendere meglio il funzionamento del cervello umano, conviene riflettere – senza allarmi, appunto, ma con rigore – su come far sì che le maggiori conoscenze vengano utilizzate a beneficio di tutti e non per manipolare surrettiziamente la mente di qualcuno.  

Pietro Greco

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