SOCIETÀ
Declino: di chi è la colpa?
Foto: Reutes/Francois Lenoir
Occidente: autoanalisi di un successo e di una paura. Come siamo riusciti a diventare i più ricchi e potenti al mondo, e soprattutto perché oggi rischiamo di perdere questo predominio? Nel 1978 un cittadino statunitense produceva un reddito pari a quello di 22 cinesi: oggi il rapporto è sceso a cinque. Allo stesso tempo il livello di scolarizzazione di uno studente medio di Shangai, secondo i parametri PISA elaborati dall’Ocse, supera ormai quello di un collega americano nella stessa misura in cui questi sopravanza quello di un tunisino.
Da spiegare ci sono dunque sia la grande divergenza degli ultimi cinque secoli a favore dei paesi occidentali (300 anni fa un cinese e un nordamericano producevano la stessa ricchezza), sia l’attuale fase di riconvergenza. Sono questi gli interrogativi da cui parte Il grande declino. Come crollano le istituzioni e muoiono le economie, l’ultimo libro pubblicato in Italia dallo storico britannico Niall Ferguson (Mondadori 2013).
Nel 1989, con il collasso del sistema sovietico, lo stile di vita ‘occidentale’ – questo strano mix di democrazia, libertà e consumismo, al di là della connotazione geografica – sembrava avere ormai sconfitto l’ultimo avversario storico, avviandosi al definitivo trionfo. Pochi mesi prima il politologo americano Francis Fukuyama aveva teorizzato, con un articolo pubblicato su The National Interest, addirittura la fine della storia. Oggi, a 25 anni di distanza, i vincitori di allora hanno perso gran parte della loro spinta, dibattendosi tra stagnazione economica, Deleveraging (l’esigenza di ridurre l’enorme debito pubblico e privato accumulato) e l’esplodere degli squilibri sociali interni. Intanto, tra le vecchie e nuove nazioni in ascesa, solo l’India e la Corea del Sud sembrano continuare ad abbracciare i principi della democrazia e dello stato di diritto.
La situazione che oggi Europa e Usa si trovano a fronteggiare, spiega Ferguson, è quella che Adam Smith ne La ricchezza delle nazioni (pubblicato nel 1776) descriveva come la “stato stazionario”, tipica dei paesi in precedenza ricchi che però hanno cessato di crescere, come i grandi imperi in declino. La colpa non è soltanto, secondo lo studioso, della finanza impazzita e delle bolle speculative, ma sostanzialmente dell’ipertrofia e dell’irrigidimento dei sistemi statali. Per la crescita e il successo delle nazioni infatti, secondo questa visione, più che le differenze ambientali e culturali contano soprattutto le istituzioni: il parlamento, il sistema giuridico, l’effettiva indipendenza dei giudici... Cultura e religione sono sì importanti, ma si limitano a creare norme di comportamento, mentre le istituzioni generano incentivi.
Per un certo periodo la società occidentale – ovvero quello britannica, secondo l’anglocentrico Ferguson – è stata la migliore nel proteggere la libertà e la proprietà dei cittadini, favorendo più di ogni altra l’iniziativa individuale: oggi al contrario non sarebbe è più così. Ferguson si riferisce in particolare al principio che nei paesi anglosassoni è conosciuto come Rule of law, corrispondente solo in parte al nostro ‘stato di diritto’, così come nato dalla Magna Charta e successivamente sviluppato dalle corti nel sistema della Common Law. In questa chiave viene letto anche il declino: l’Occidente è attualmente avviluppato in una spirale di burocratizzazione che, se da un lato vuole proteggere i cittadini dalla povertà e dai rovesci della fortuna, dall’altro genera inefficienze e illegalità. Una vera e propria degenerazione istituzionale (The Great Degeneration è il titolo originale) in cui le regole, sulla scia del pensiero neoliberista, diventano da un certo punto in avanti la stessa malattia che pretendono di curare, distorcendo e corrompendo sia il contesto politico che quello economico.
Come uscire da questa situazione? Certo, secondo l’autore, non dando sempre più spazio all’ossessione regolatrice, bensì promuovendo un sistema semplice, flessibile e basata sull’effettività responsabilità delle persone e delle imprese. Soprattutto però è necessario, secondo Ferguson, tagliare le unghie alla “mano arraffatrice” dello stato, tornando a dare spazio alla società civile e alla sua creatività dal basso: largo dunque alle associazioni e alle formazioni spontanee di cittadini, anche nell’ambito della cultura e dell’educazione, compresa quella universitaria.
Il grande declino è un libro interessante, anche se in qualche punto la chiarezza di idee e di linguaggio sembra lasciare spazio a una certa dose di superficialità. Come ad esempio quando ci si chiede come faccia il sistema britannico (si badi, non statunitense) ad essere tanto migliore di quelli continentali, tutti riuniti sotto la comune etichetta di Civil Law. Nelle cento paginette del libro sembra inoltre mancare una riflessione adeguata su alcune dinamiche del processo di declino delle nazioni, in primis la globalizzazione. Un fenomeno che, tra i molteplici effetti, ha anche portato a quello che Zygmunt Bauman ha definito come separazione tra politica e potere, cioè innanzitutto tra i parlamenti e i centri di decisione effettiva. Ciò nonostante la visione proposta da Ferguson può avere il sapore di una provocazione salutare, nel momento in cui da più parti si auspica un ritorno al ruolo accentratore dello stato. È il caso di chi, ad esempio, anche da noi auspica di uscire dalla crisi tramite massicci investimenti pubblici, oppure di normative come il pacchetto Basilea 3 o la legge statunitense Dodd-Frank, le quali – con l’obiettivo di regolamentare in maniera più rigorosa settori fondamentali come quelli bancario e finanziario – rischiano in realtà di indebolire ulteriormente l’economia sotto il peso di una pletora di precetti di difficile applicazione.
Attenti comunque a dare l’Occidente per morto. È passato circa un secolo da quando Oswald Spengler, sull’onda della tragedia della prima guerra mondiale, pubblicava Il tramonto dell’Occidente. Le “terre del tramonto” (le Abendlandes del filosofo tedesco) si sono però fino ad ora dimostrate sempre capaci di trovare il guizzo per evitare il collasso definitivo, da ultimo per esempio con l’inaspettata fase della costruzione europea, che proprio Ferguson sembra mettere in discussione. Perché, se l’occidente soffre, non è che gli altri a ben vedere siano messi così bene. Andrà così anche stavolta?
Daniele Mont D’Arpizio