SOCIETÀ

Diritti umani a rischio: non solo Stati, ma anche multinazionali

Tradizionalmente il rispetto dei diritti umani è una questione compresa nel rapporto fra Stato e individuo, con lo Stato come responsabile della tutela dell’individuo stesso. In questo quadro, erano gli Stati il soggetto fondamentale sia della tutela che dei possibili abusi. Nell’ultimo decennio il processo di globalizzazione ha decretato un cambiamento dello scenario, assegnando alle grandi società multinazionali un ruolo di primo piano, paragonabile a quello di tanti Stati minori o anche medi. Esse, infatti, hanno la capacità di impattare sulla vita dell’individuo e sul rispetto dei diritti in modo spesso molto più sostanziale del governo che le ospita.

Questa situazione solleva domande sulla responsabilità delle corporations, che hanno ampio spazio per agire in rispetto, o meno, delle leggi dello Stato nel quale sono registrate e di quello che le ospita, in virtù di una condizione molto particolare.  È infatti difficile individuare la loro responsabilità civile  e penale in caso di violazioni dei diritti fondamentali data la non identità fra lo Stato in cui hanno sede, o hanno gli organi decisionali, e quello (o quelli) in cui svolgono concretamente le loro attività. Siamo quindi di fronte ad una lacuna normativa a livello internazionale, nel labirinto delle complesse strutture legali che compongono le corporation stesse.

L’ordinamento internazionale sui diritti umani definisce anzitutto una serie di obblighi degli Stati dei quali l’individuo è beneficiario; l’agente responsabile di questa tutela, lo Stato, troppo spesso però non ha i mezzi adeguati per reprimere gli abusi di soggetti come alcune società private, specialmente grandi multinazionali. Le attuali modalità per far valere la responsabilità internazionale non permettono di colpire adeguatamente comportamenti non direttamente imputabili agli Stati, e ciò rende difficilmente attuabili le garanzie poste dall’ordinamento a tutela della dignità umana, soprattutto in presenza di governi deboli, economie povere, regimi di guerra.  E’ necessario, insomma, rivedere l’approccio tradizionale alla protezione dei diritti, definendo degli obblighi anche per le compagnie private nel rispetto delle norme sui diritti umani.

La proclamata responsabilità sociale delle corporations troppo spesso viene meno nel concreto di fronte alle condizioni del lavoro, all’equità del salario, alla discriminazione razziale, allo sfruttamento del lavoro minorile, fino a travolgere il più basilare diritto alla vita dell’uomo e dell’ambiente. Il settore estrattivo, con le industrie petrolifere in testa, è di gran lunga il più soggetto ad accuse di violazione dei diritti umani. Non ne sono esenti il settore alimentare, il tessile e il calzaturiero, oltre a quello dell’information technology, la cui influenza si estende al diritto all’informazione e alla libera circolazione di notizie e opinioni sul web.

A sollevare questioni etiche e normative importanti interviene la tendenza, in questo ambito, verso la privatizzazione dei servizi di sicurezza, che danno luogo alla nascita di società operanti anche in campo militare con proprie strutture e catene di comando al di fuori degli Stati in cui hanno sede legale. Parliamo qui della delega da parte degli Stati a compagnie private di servizi di sicurezza all’estero, come nei casi dei contractors in Iraq o Afghanistan, ma soprattutto degli incarichi in termini di sicurezza spesso militare a società specializzate da parte di imprese private per la tutela delle proprie attività all’estero, come nel caso degli impianti delle multinazionali del petrolio in Nigeria. Si assiste in questo caso a un chiaro spostamento dalla sfera pubblica a quella del libero mercato, nel più generale movimento verso la privatizzazione delle funzioni dello Stato. Le compagnie private militari e di sicurezza forniscono servizi che vanno dal supporto armato ai governi, al sostegno nelle operazioni di pace, alla vigilanza armata per conto di compagnie terze, sollevando questioni etiche di enorme portata: l’incompatibilità possibile fra l’interesse della compagnia e quello del governo che la paga, i dubbi sulla lealtà del personale, la correttezza morale dell’attività di sicurezza a favore di governi dittatoriali, solo per nominarne alcune. Si assiste anche in questo caso a un vuoto normativo ancora più pericoloso, perché in grado di mietere vittime umane senza che un responsabile possa essere individuato e tanto meno perseguito.

Un esempio di violazioni gravi e sistematiche viene da Papua Nuova Guinea, dove una società canadese possiede quasi intermente una miniera d’oro: la compagnia porta ricchezza, educazione, lavoro, ma allo stesso tempo riversa rifiuti liquidi tossici nel fiume, scarica tonnellate di detriti gravemente inquinanti e si conferma concausa di crimine, alcolismo e lavoro di miniera illegale: uomini, donne e bambini chini su montagne di scarti a raccogliere polvere d’oro e mercurio, che in molti casi li ucciderà; donne sorprese dalle guardie all’interno della miniera e per questo ricattate, picchiate, stuprate dagli agenti di sicurezza assoldati dalla compagnia: “Vuoi andare a casa o dalla polizia? A casa? Allora dovrai pagare un prezzo alto”. Di chi la responsabilità per questi crimini, chi dovrà pagare? E’ possibile dare ogni responsabilità alla società canadese, che ostenta liberamente cecità, o è invece il governo della Nuova Guinea a non essere in grado o a non voler di agire? E quale ruolo gioca lo Stato canadese in tutto questo?

Oggi la legge non ha risposte a queste domande. Le strada verso la responsabilizzazione delle compagnie private nel campo dei diritti umani a livello internazionale è lastricata di linee guida senza portata vincolante, come le “OECD Guidelines for Multinational enterprises” o il “Respect, Protect and Remedy Framework” elaborato da John Ruggie in ambito ONU. In quest’ultimo documento tre sono i pilastri su cui fondare una responsabilità condivisa: l’obbligo dello Stato di proteggere l’individuo, la responsabilità della corporation di rispettare la società all’interno della quale opera e le sue leggi, il diritto della vittima a ottenere un “risarcimento”. Attenzione però allo slittamento semantico fra l’“obbligo” statale e la “responsabilità” del mercato: non è una questione di forma, ma di contenuto, che definisce la precarietà di tutta la struttura concettuale. La responsabilità richiama infatti una forte componente di volontà, eliminando quella di dovere: la compagnia ha la responsabilità ma non l’obbligo di tutelare i diritti dei lavoratori e di salvaguardare l’ambiente in cui opera.

Data questa situazione, è solo l’opinione pubblica ad aver gli strumenti di pressione per esigere con forza iniziative socialmente etiche da parte della compagnia, usando la propria influenza sul mercato e limitando spesa e consumo come strumento di ricatto  e riscatto. Certo, questi strumenti possono essere efficaci, ma troppo spesso si rivelano insufficienti, come evidenziano le vicende che hanno coinvolto la Apple o in passato la Shell e la Nestlè. E se l’opinione pubblica può fare qualcosa contro questi colossi, difficilmente si muoverà contro le migliaia di quasi sconosciute multinazionali che ogni giorno operano nelle zone  deboli della Terra.

La discrezionalità degli Stati e l’indifferenza delle compagnie, a questo punto, male condividono una responsabilità anche nell’assicurare risarcimenti alle vittime degli abusi, che dovrebbe costituire la terza componente fondamentale di una efficace struttura normativa nel campo dei diritti umani. Per ora solo gli Stati Uniti prevedono una competenza giurisdizionale extraterritoriale per danni subiti da cittadini non statunitensi. È stata data nuova applicazione, infatti, a una legge per lungo tempo dimenticata, l’Alien Tort Claims Act (ATCA) del 1789, secondo cui le Corti distrettuali esercitano la giurisdizione su ogni azione civile intentata da un cittadino straniero per il risarcimento del danno causato dalla violazione del diritto internazionale (nella formulazione originale "The district courts shall have original jurisdiction of any civil action by an alien for a tort only, committed in violation of the law of nations or a treaty of the United States"). In questo modo si è potuto chiamare in giudizio la Royal Dutch Petroleum per fatti accaduti in Nigeria (2006 e 2012), Yahoo per le sue attività in Cina (2007) e la Coca-Cola rispetto alla Colombia (2009).

La definizione di una normativa internazionale per la tutela dei diritti umani che imponga alle società private degli obblighi specifici, e non soltanto delle responsabilità generiche, sembra essere l’unica strada percorribile verso il riconoscimento universale della dignità dell’individuo, anche in zone della terra dove i diritti più basilari vengono calpestati senza possibilità di ottenere giustizia, o almeno riconoscimento.

Chiara Mezzalira

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