UNIVERSITÀ E SCUOLA

Diritto allo studio? Rivolgersi alla posta

Tempo di immatricolazioni universitarie e non hai soldi? Fai una passeggiata in posta. Ci troverai uno sportello dalle tinte giallo-blu con un logo a forma di scatola di biscotti. Dietro a questa cauta evocazione familiare c’è una campagna promozionale intitolata “Io studio”. “Io studio“ è il servizio prestiti offerto dalle poste italiane agli studenti. “È la soluzione ideale per sostenere i progetti di studio della tua famiglia”, dice la campagna promozionale. “Se tuo figlio frequenta la scuola elementare il prestito è di mille euro, invece sono tremila se tuoi figlio è iscritto all’università”. La promozione, valida sino al 6 novembre, ti consente giusto giusto di pagare le tasse in tempo. Insomma: tuo figlio vuole raggiungere i gradi più alti degli studi? Oggi c’è Io studio, il prestito fatto apposta per te.

Ma come: non c’era un articolo costituzionale (l’art. 34) secondo il quale la Repubblica rende effettivo il diritto dei “meritevoli ma privi di mezzi” a raggiungere “i gradi più alti degli studi” “con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”? Si, l’articolo c’è ancora, ma le borse non ci sono più. O meglio, in Italia ci sono pochi studenti e meno borse. Di fatto, l’Italia è l’unico paese in cui esistono idonei senza borsa, studenti che il concorso per accedere alle cosiddette provvidenze lo vincono, ma oltre alla gloria non ci guadagnano nulla. In breve: dopo cinquantacinque anni dall’approvazione dell’Articolo 34 qualcuno si è accorto che di studenti è meglio averne pochi, piuttosto che tanti, meglio ancora se di mezzi non sono privi, ma ricchi.

Tasse più alte, debito studentesco e numero chiuso: benvenuti nel nuovo anno accademico. Sì, perché un pò come la scatola di biscotti gialla e blu della campagna prestiti Banco Posta, anche il numero chiuso sembra una cosa innocente. Ma non lo è. Sarebbe un errore sottovalutare quanto è avvenuto quest’anno. Storicamente ci sono sempre stati corsi di laurea a numero programmato. Ma quest’anno secondo le organizzazioni studentesche i corsi a numero chiuso sono addirittura il 54% del totale. Questo include i corsi di laurea storicamente programmati, come medicina e chirurgia, architettura e giurisprudenza. Ma per la prima volta include anche i corsi tradizionalmente aperti, come storia, filosofia, storia dell’arte. Alcuni atenei, penso per esempio agli atenei di Palermo e Catania, hanno inserito lo sbarramento in tutti i corsi. Per capire la ratio di questo intervento torna utile Meritocrazia di Abravanel. Con una disoccupazione giovanile oltre il 35%, non ha senso che studino tutti. Meglio “creare poche università eccellenti […] e monopolizzare l’accesso ai migliori posti di lavoro” (p. 135). Di fatto, dal Decreto Ministeriale 17 in poi, non è bastato ridimensionare l’università pubblica. Bisogna liberarsi degli studenti.

Facciamo un passo indietro. Da Tremonti in poi, infatti, l’università italiana ha visto un rapido ridimensionamento. Il Fondo di Finanziamento Ordinario (Ffo) è sceso da 7,4 miliardi nel 2008 a 6,45 miliardi nel 2013. Stando al rapporto Oecd Education at a Glance 2012, l’Italia sfigura quanto a finanziamento pubblico, ed è penultima quanto a spesa per studente. Paradossalmente, con questi tagli,il sistema universitario ha potuto reggere negli ultimi anni proprio grazie ai pensionamenti e alla riduzione dell’organico, passato da 64 a 54 mila docenti e ricercatori negli ultimi quattro anni. Quando si parla di turnover bloccato, di 20 mila ricercatori precari, post-doc, assegnisti, co.co.co che hanno abbandonato l’università nell’ultimo anno, dei più di 1100 corsi di laurea tagliati dal 2010 al 2011, pertanto, non stiamo parlando di problemi. Secondo il rettore della Iulm Puglisi l’ideale sarebbe tagliare direttamente il 70% degli atenei. Insomma: in Italia l’accesso all’istruzione terziaria ha ancora connotazioni di classe anacronistiche, riporta l’ultimo rapporto Ocse. Eppure la mancanza di accesso all’istruzione pare non essere un problema, bensì una soluzione.

È evidente che su questo punto si sta giocando una partita importante. Da anni, il movimento studentesco è impegnato contro la liberalizzazione delle tasse e il numero chiuso. Di fatto, dal Settecento in poi l’istruzione aperta e gratuita per tutti è stata cartina tornasole della struttura democratica di ogni paese. È stato Allende in Cile, ad esempio, a rimuovere immediatamente i meccanismi di chiusura e accesso all’università, disegnando quella che Constable e Valenzuela hanno descritto come un’epoca euforica per gli studentiÈ stato il Cile di Pinochet, poi, a chiudere immediatamente l’università pubblica su consiglio dei Chicago Boys.

Anche l’Italia ha i suoi Chicago Boys. Già nel 2003 Roberto Perotti proponeva nuovi modi per “fare sudare alle università i loro fondi”. Uno di questi era “di mettere gli studenti in grado di votare con il loro portafogli. Se gli studenti fossero costretti a pagare di più, porrebbero ulteriore pressione sulle università a competere”. Sempre su Lavoce.info, Gianni de Frajanel 2007 caldeggiava la “privatizzazione completa e totale di tutte le strutture di ricerca e di istruzione terziaria”. Potremmo andare avanti sino all’interrogazione parlamentare di Pietro Ichino, che nel maggio 2011 proponeva l’aumento delle tasse universitarie a 10 mila euro annue. O alla proposta recente di Andrea Ichino e Daniele Terlizzese: “Se l’università si autofinanzia”, recitava l’articolo sul Sole 24 Ore. Di fatto, Ichino e Terlizzese non proponevano solo l’aumento delle tasse universitarie a 7.500 euro (altro che autofinanziamento). Si spingevano a proporre che fossero le famiglie stesse a finanziare i prestiti d’onore tramite il risparmio postale. Il risparmio postale: sì, perché fatalità, gira e rigira siamo ritornati in posta.

Insomma, Io studio è il prodotto di un lavorìo culturale durato anni. La scatola di biscotti alle poste significa esattamente questo: il debito studentesco non fa male, provalo, facci amicizia. Numero chiuso, prestiti d’onore, tasse più alte: è questa l’università che ci troviamo di fronte all’apertura dell’anno accademico. Resta una sola domanda: come risponderanno gli studenti?

 

Scheda Tecnica: qualche dato in più

Il dodicesimo rapporto Ocse 2012 Education at a Glance evidenzia come l’istruzione in Italia viva una situazione di vera e propria emergenza dalla scuola primaria all’università. L’Italia è il paese che più ha disinvestito nell’istruzione pubblica. È il penultimo paese (33 su 34) quanto a spesa per studente. È il paese che meno ha cercato di contenere gli effetti negativi della crisi, spostando buona parte del calo del Pil sull’istruzione, mentre la gran parte degli altri paesi si è mossa in direzione opposta L’Italia continua ad avere un numero di laureati tra i più bassi d’Europa. Si tratta del 15% di laureati se consideriamo la fascia d’età tra i 26 e i 64 anni, contro il 31% di media europea, mentre se guardiamo alla fascia d’età tra i 25 e i 34 anni si tratta del 21% di laureati contro il 38% della media europea, dato che la colloca al 34° posto su 37 paesi.

Il livello delle immatricolazioni in Italia continua a scendere, e questo dato è aggravato dalla situazione del mercato del lavoro: il tasso di occupabilità aumenta con l’aumentare dell’istruzione in maniera ridotta rispetto alla media europea. Il rapporto Almalaurea 2012 evidenzia addirittura come il guadagno mensile netto a un anno dalla laurea sia maggiore per un laureato triennale rispetto a uno studente che ha conseguito la laurea specialistica.

Dato lo stato critico dell’università e del mercato del lavoro, l’Italia ha il primato dei Neet: giovani in età compresa tra i 15 e i 29 anni che non ha un’occupazione né studia. Questa proporzione è del 15% più alta della media Ocse, e sebbene la percentuale sia decresciuta dal 1998 al 2003, essa è in continuo aumento dal 2008.

Nel contempo le tasse universitarie continuano a crescere: secondo l’ufficio statistica del Miur l’andamento nazionale della contribuzione studentesca è in costante crescita dal 2006-2007, assestandosi nell’a.a. 2010-2011 a 1.637 milioni di euro contro i 1.367 di quattro anni prima. Sino allo scorso luglio la contribuzione studentesca era regolata dal DPR 306/97, che chiariva che “la contribuzione studentesca non può eccedere il 20% dell’importo del finanziamento annuale dello Stato”. La norma è stata di recente corretta dalla Spending Review, che pur mantenendo il limite del 20% ha cambiato il numeratore e il denominatore del rapporto, di fatto rompendo il tabù che sino a oggi ha impedito l’aumento fuori controllo delle tasse universitarie.

Secondo l’Ocse l’Italia ha un altro primato negativo, il numero di studenti nella low-education trap, la trappola della bassa scolarizzazione. Di fatto, solo il 9% dei laureati italiani proviene da famiglie nelle quali i genitori non hanno il diploma di scuola secondaria (la media europea è del 20%). Questo significa che l’istruzione in Italia è fortemente segnata dalla famiglia d’origine, più scolarizzati sono i padri e più lo sono i figli, in una trappola sociale che incide gravemente su chi ricade al di fuori delle categorie privilegiate.

 

Francesca Coin

Questo articolo è tratto dal quotidiano “Pubblico” del 22 settembre

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