UNIVERSITÀ E SCUOLA

Dottorati: la grande selva dei discorsi vuoti

Gli interventi suscitati dall'incisiva e brillante provocazione di Claudio Giunta hanno già proposto con indubbia efficacia i principali punti di vista dai quali è possibile considerare i significati di una realtà come quella costituita - per dirla in estrema sintesi – dai dottorati di ambito umanistico nel contesto del rapporto  tra istituzione universitaria e sistema-paese nell'Italia di oggi. Mi sembra che tutti in varia misura offrano spunto per una considerazione che potrà apparire troppo generale nonché, forse, troppo ambiziosa per la vastità delle implicazioni che mette inevitabilmente in gioco, ma che forse può contribuire a suggerire alcuni interrogativi alla cui radicalità oggi sarebbe bene esporsi, proprio in nome di quel bisogno di concretezza che sovente  viene evocato per censurarli e pur al prezzo di svariati debiti insoluti rispetto alle esigenze logiche e documentarie poste dalle questioni così sollevate.

È cosa ovvia che il discorso sull'Università ai nostri giorni non possa essere sottratto ad una prospettiva  che veda le sorti di questa istituzione legate alla qualità complessiva dello sviluppo del paese e alle trasformazioni dei contesti più vasti nei quali sempre di più si scompone e ricompone la sua realtà, in virtù di processi  che da tempo irridono i confini dei singoli stati. Proprio da una lettura perlomeno sbrigativa di questo nesso sembrano trarre forza gli inviti a mettere al bando arcaici indugi su argomentazioni che si attardino a ragionare di valori morali e culturali, peggio ancora "spirituali": di utilità insomma penosamente non quantificabile, e quindi buoni solo a confezionare giustificazioni retoriche a pro di umanisti irragionevolmente ostinati a non sparire. È questo il quadro nel quale si ambientano i richiami al "fabbisogno" e, in generale, alla subordinazione delle ambizioni (o velleità) di docenti e studenti alle "dure repliche del reale", e qui trovano origine - in epoca di tagli, meglio se lineari, ovvero sommariamente motivati - le proposte di contrazione guidata e infine di dismissione di strutture didattiche e scientifiche giudicate obsolete, con i saperi che vi si riproducono.

In effetti anche queste posizioni, che, come si sarà percepito, chi scrive registra senza troppo entusiasmo, hanno se non altro il merito di evidenziare come la grande selva dei discorsi sull'università maturati negli ultimi decenni, e dalla quale sono emersi quei singolari intrecci di riformismo velleitario o tardivo e di metamorfosati conservatorismi (da cui la sequela di interventi legislativi che hanno più che effettivamente innovato, burocraticamente stressato una struttura per buona sorte dotata di zone di indomita vitalità) sono essi sì, obsoleti. In assenza di un deciso salto di qualità nella concezione del rapporto che lega la riproduzione delle risorse intellettuali e la valorizzazione del capitale umano rappresentato complessivamente dalle potenzialità emergenti dai processi sociali, gli appelli a far giustizia sommaria  dei saperi presunti inutili ( e non saranno solo i primi indiziati...) diverranno sempre più irresistibili perché paradossalmente sempre più "realistici".

Come si relazionano oggi la ricerca e la formazione  avanzata alla sviluppo dei sistemi sociali ed economici? O, meglio, come e quanto incidono sulla "qualità" di tale evoluzione? Sembrerebbe scontato rispondere che dalla densità della presenza dell'una e dell'altra nella stoffa della produzione, dei servizi e degli stili di vita dipenda in misura decisiva la determinazione del livello cui si attesta la qualità complessiva di una società. Infatti così tendono a recitare le giaculatorie dei politici, soprattutto in concomitanza a scelte che andrebbero nella direzione opposta.  In realtà la gamma di risposte che mondo produttivo, istituzioni e politica tendono a formulare nei loro concreti comportamenti è molto articolata e comunque, in misura e maniera diversificatissime, condizionata dalla propensione a subordinare lo sviluppo culturale e scientifico alle esigenze di tenuta degli apparati che pretenderebbero di governarne gli effetti. In ogni caso qualora ci si domandi quale sia oggi la forma di pensiero che si ritiene sia competente a leggere, a valutare e a dirigere le strutture deputate a produrre ricerca, innovazione e formazione la risposta inevitabilmente farebbe riferimento a un complesso di saperi che sono quelli dell'economia e dell'amministrazione, con una crescente enfasi sulle competenze e sulle figure che caratterizzano la cultura del sempre più dominante mondo della finanza. Certamente la forza di questa tendenza non può certo venire vanificata da tradizionali rivendicazioni della centralità del patrimonio valoriale umanistico-scientifico (libertà e disinteresse della ricerca e dell'insegnamento, indipendenza dai poteri politici ed economici...), che comunque ha avuto un ruolo decisivo nel modo in cui l'università è stata dall'ottocento ad oggi un articolazione essenziale della costituzione materiale degli stati europei.

Tuttavia è forse lecito chiedersi se quest'ottica sia realmente quella più adeguata a stabilire per un verso ciò di cui vi sarebbe "bisogno" (e “fabbisogno”), e a promuovere dall'altro lo sviluppo e la socializzazione delle risorse intellettuali – domandandosi, quindi, se sia l'unica e o comunque la più adatta a fornire migliore interpretazione della nostra realtà attuale. La domanda si rivolge innanzitutto ai saperi e ai loro portatori, che sembrano aver rinunciato da tempo a porsi il problema del rapporto tra l’assetto epistemologico e metodologico delle discipline e i processi sociali nei quali si determinano  le condizioni della loro stessa riproduzione, adattandosi di fatto a stare nella posizione dell’oggetto “parlato”- e quindi  governato - dal metalinguaggio manageriale. Non a caso, infatti, anche in Italia - nel bene e nel male - si va completando nella governance universitaria lo smantellamento della vecchia realtà “corporata”, nella quale i docenti formavano il soggetto abilitato a dar forma al rapporto tra i fini dell’istituzione e le modalità della loro attuazione a favore di un governo rappresentativo di logiche gestionali extra-accademiche, nel quale la figura del rettore, per quanto eletto, assume sempre di più i tratti del commissario. 

Un quesito che ci sembra ancora più motivato se rivolgiamo l’attenzione alla qualità del discorso che su ricerca, innovazione e formazione si produce in quei contesti –  sistema produttivo e dei servizi anzitutto - che dovrebbero elaborarne la relativa domanda sociale. (1/continua)

Adone Brandalise

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