UNIVERSITÀ E SCUOLA

Dottorati: la grande selva dei discorsi vuoti/2

Restando nei limiti dello scenario italiano, la sensazione prevalente è che non vi sia, da parte del sistema produttivo e dei servizi, una domanda di innovazione, di formazione avanzata e complessivamente di cultura che si incroci con quanto, pur con i limiti che le caratterizzano, le nostre scuole e le nostre università  sono in grado di proporre. Un mancato incontro paradossale, nel quale sembra riflettersi una pericolosa incapacità di portare a un livello avanzato quello che potremmo, senza pretesa di rigore, definire grossolanamente il tasso di intelligenza formata incorporato nel funzionamento della nostra società. Forse ci si potrebbe spingere sino a congetturare che negli ultimi decenni (aldilà dell’epifenomeno costituito del battage anticulturale e antiuniversitario pompato dai media) si sia consolidata una tendenza a respingere la prospettiva di un'effettiva centralità della cultura diffusa e dell’innovazione nel processo di crescita dell’economia e della qualità sociale. La stessa insistenza sui temi della vocazione manifatturiera della nostra economia e sulla dominante strategica della piccola e media industria, pur importantissimi, ha finito per agire spesso come giustificazione di una rinuncia a muoversi su obiettivi più ambiziosamente articolati. Obiettivi che, se adeguatamente perseguiti, avrebbero probabilmente contributo a creare un contesto generale in cui le stesse manifattura e piccola e media industria avrebbero potuto ricavare risorse decisivamente utili per la loro evoluzione, e situarsi così in condizioni più favorevoli al loro successo di quanto non sia di fatto avvenuto.

Andando a stringere sulla questione dei dottorati in discipline umanistiche, ci si può allora domandare a cosa dovrebbero servire, i dottorati – tutti i dottorati - in un paese che ritiene nei fatti di non poter attribuire un ruolo positivo alle competenze che producono. Quelli dei settori scientifico-tecnologici (e con caratteristiche diverse quelli delle scienze del business) potrebbero sopravvivere come appendici localizzate in Italia di reti di ricerca internazionali, contribuendo al costante rinnovamento della coorte di cervelli in fuga (per lo più salutati dal sollievo nel vederli partire da un establishment nazionale timoroso di doversi dimostrare capace di servirsene), ma quelli umanistici sembrerebbero, più che mai e senza speranza, in cerca d’autore… 

Si tratta ovviamente di una rappresentazione che semplifica ed estremizza, ma che crediamo nella sostanza non mistifichi l’andamento delle cose. Comunque, qualora si volesse correggere, o meglio ancora invertire, sarebbe importate approfondire alcune questioni. Il dottorato deve necessariamente essere inteso come finalizzato alla mera riproduzione accademica? Qualunque sia la prospettiva adottata, un sistema paese che non sapesse integrare in forma diffusa momenti di ricerca nelle sue strutture difficilmente avrebbe delle chances di successo in futuro, e quindi sarebbe comunque essenziale che competenti con le caratteristiche del dottore di ricerca avessero ampia utilizzazione anche fuori dall’università. Il timore di una università “asservita all’industria e alla finanza” è destinato a realizzarsi se il mondo della ricerca  continuerà a temere questo rapporto perché incapace di  attrezzarsi a guidarlo invece che a subirlo.

Nel quadro di una torsione  virtuosa di questa tendenza quale sarebbe il ruolo della ricerca umanistica e quindi dei relativi dottorati? Paradossalmente, ciò da cui oggi la cultura umanistica trae la sua ragion d’essere - la creatività artistica e linguistica, il pensiero filosofico - è destinato a veder riconosciuta la sua importanza quanto più divenga evidente la relazione che sussiste tra  la vitalità di questi specifici aspetti e la capacità della società di riconoscersi complessivamente come risorsa. Di darsi, cioè, forme qualitativamente elevate a partire da quanto di ciò si traduce in capacità di ideare e produrre a un livello più avanzato, di ciò che diviene migliore organizzazione degli stili di vita e di consumo e della stessa capacità collettiva di gestione dei conflitti.

In questa prospettiva le forme tradizionali della ricerca in ambito umanistico potrebbero mostrarsi assai meno obsolete di quanto non si sia soliti pensare, ma certo a quanti si dedicano oggi a questo mestiere andrebbe richiesto uno sforzo  non ordinario per ripensare  i propri stili di lavoro e di comunicazione  a partire da quel complesso di costruzioni burocratiche accademiche che spesso vengono presentate come delle essenze metafisiche dell'università mentre sono, a volte, soltanto la concrezione storica di convenzioni corporative.

I dottorati umanistici, quindi, devono essere soppressi o concentrati in poche nicchie d’eccellenza? Quest’ultima ipotesi potrebbe vantare buone ragioni a suo vantaggio ed è forse destinata a realizzarsi. Eppure, è forse lecito chiedersi se i saperi umanistici non possano servire a nulla di meglio che a motivare l’esistenza di qualche riserva indiana a cinque stelle.

La riflessione volendo potrebbe ripartire da qui. (2/fine)

Adone Brandalise

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