SOCIETÀ

Egitto: transizione democratica o guerra civile?

I militari hanno rovesciato il primo presidente eletto in Egitto, Mohamed Morsi, proprio quando il Paese sembrava fosse uscito, con le elezioni di un anno fa, da una sequenza di leader "con le stellette" comune a molti stati ex-coloniali dopo l'indipendenza. E colpisce come poche altre cose vedere, rimbalzate attraverso il web, le scene di entusiasmo di piazza Tahrir alla notizia del golpe. Perché la piazza del Cairo applaude oggi quelle divise che un anno fa aveva cacciato a costo di molto sangue, e con una mobilitazione collettiva senza precedenti?

I fratelli musulmani, il partito di cui è rappresentante Morsi, apparivano come la forza politica più radicata e rappresentativa: quella che, attraverso decenni di clandestinità, aveva organizzato le masse dei fellah diseredati. La forza capace di evitare le trappole ideologiche della modernizzazione autoritaria e riconciliare il più importante paese arabo (85 milioni di abitanti) con la religiosità di gran parte della sua popolazione. Un partito che, attraverso la mediazione delle autorità religiose dell'università islamica di al-Azahr, poteva fare da motore per la rinascita dell'Islam politico democratico nel mondo arabo.

Un anno di governo e la mediocrità di una leadership poco carismatica – oltre che di un personale politico che, a differenza degli omologhi dell'AKP turco,  non aveva mai avuto occasionedi acquisire competenze nelle amministrazioni locali – hanno prodotto una sfiducia generalizzata da parte dei cittadini. Una sfiducia aggravata dalla crisi economica che dall'Europa in recessione si abbatte con effetti moltiplicati su paesi nei quali non esiste il cuscinetto dei risparmi e del benessere delle generazioni precedenti a fare da ammortizzatore. In Egitto è evidente la frattura – chiara anche in Turchia, nei recenti avvenimenti – fra città e campagna, fra melting pot urbano, in cui le minoranze devono mescolarsi e tollerarsi e i rapporti comunitari si stemperano nella vita quotidiana, e realtà rurali dove il tradizionalismo mantiene intatto il suo peso e struttura le appartenenze poliche a favore dei partiti religiosi.

Di fronte alla piazza che solo un anno fa aveva abbattuto Mubarak in nome della democrazia e del rifiuto della corruzione (e difeso il museo egizio con le sue statue di dèi dalle teste di gatto e di uccello, nel pieno del caos, dai saccheggiatori e dalle bande organizzate: chiaro segno di identità "nazionale") e oggi applaude la destituzione del presidente, è inevitabile interrogarsi sulla natura del golpe: siamo di fronte a un colpo di stato simile a quello del generale cileno Augusto Pinochet, nel 1973, o a quello della "rivoluzione dei garofani" portoghese di Otelo de Carvalho, nel 1974? I militari che impongono la loro tutela ( e i loro interessi) alla società con la forza delle armi, o l'esercito che, rispondendo alla società, sottrae "attivamente" il proprio sostegno a un potere ormai inviso alla gran parte della popolazione?

Una risposta esauriente non è ancora possibile darla: occorrerà aspettare gli sviluppi – anzitutto, quali provvedimenti prenderà il nuovo potere dopo la designazione come presidente provvisorio del giudice Adly Mansour e quanto tempo passerà prima di nuove elezioni, e le reazioni in risposta. Ma si può, tuttavia, guardare all’esperienza di un paese che – per importanza, popolazione, ruolo delle élites militari e civili laiche e religiosità della popolazione – in gran parte è paragonabile all’Egitto: la Turchia.

Lì, il partito moderato di ispirazione islamica giunto al governo è riuscito, pur partendo da condizioni iniziali svantaggiose, a mettere radici solidissime in pochi anni di potere, esautorando di fatto i militari, dando avvio a una nuova centralità del sentimento religioso e della sua declinazione politica e candidandosi a una "seconda rivoluzione" capace di gestire l'ingresso del paese nel 21° secolo a partire dai valori della tradizione - vietando gli alcolici e riaprendo all'uso pubblico dei simboli di appartenenza religiosa, come il velo, per esempio - con buona pace del fondatore della Turchia moderna Kemal Ataturk.

Un partito capace, al dunque, di mandare la polizia a disperdere con brutalità manifestazioni di massa che portavano come insegna le bandiere turche con il ritratto del padre della patria - qualcosa che, solo dieci anni fa, avrebbe portato i militari a chiudere i giochi in un'ora, uscendo dalle caserme. Cosa che oggi non è più possibile: il potere è saldamente in mano all'AKP, nell'amministrazione più ancora che nella società. Nonostante il radicamento profondo delle élites laiche, il prestigio dell'esercito, la modernizzazione riuscita e la crescita economica, l'avvicinamento all'Europa e la fortissima tradizione laico-autoritaria che si ispira ad Ataturk.

Forse, prima ancora che la storia dell'Iran (dove a una rivoluzione democratica e alla successiva vittoria dei partiti religiosi non succedettero nuove elezioni, ma la presa di potere definitiva del clero sciita) è l'esempio turco quello che ha mosso i militari egiziani: il timore che i Fratelli musulmani potessero poco a poco cambiare gli equilibri politici, mettendoli definitivamente a margine. La convinzione che le prossime sarebbero state elezioni con un vincitore già scritto, con un'egemonia islamica non discutibile esattamente come nei decenni precedenti era accaduto per quella dell'esercito. E questo timore di una nuova dittatura, meno brutale ma pur sempre autoritaria, è senza dubbio la ragione dell'appoggio popolare che il golpe in questo momento pare avere.

I tempi del ritorno alle urne, non così scontato, e l’atteggiamento dei militari nel periodo di transizione, ci diranno se piazza Tahrir aveva ragione o meno a fidarsi di loro. Certamente, il primo presidente eletto della repubblica egiziana, e il partito di cui è espressione, hanno fallito una prova importante rispetto a quella grande parte della società, i ceti urbani anzitutto, che non si sente rappresentata dai valori religiosi. Resta da vedere, inoltre, cosa faranno i Fratelli musulmani: se la risposta di massa di queste ora avrà esito oppure se, di fronte a una sua sconfitta con la forza, il fallimento dell’esperienza democratica aprirà le porte alla guerra civile.

Michele Ravagnolo

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