SOCIETÀ

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Un ticchettio di tasti esce dal cubicolo di Wally, ma lui è in corridoio, tazza in mano e giornale sottobraccio. Il rumore che dovrebbe testimoniare la sua presenza in ufficio, infatti, è solo una registrazione. Uno dei protagonisti delle strisce Dilbert di Scott Adams, Wally, è un esperto di shirking: l’arte di evitare di lavorare in orario d’ufficio. Nato dalle esperienze “frustranti e umilianti” del suo autore in aziende californiane, Wally sa che il principio base è far sembrare che si stia comunque lavorando duramente. Ecco allora la regola numero uno, spiega The Economist: il trucco della giacca sullo schienale della sedia, che sta nel lasciare un cappotto sempre in vista nel proprio ufficio, così da far intendere di essere presente a chi per caso passi di lì (anche quando non lo si è). 

Negli ultimi anni accade allora che il tempo medio di nonlavoro per impiegato sia quantificabile fra un’ora e mezza e tre ore al giorno (ce lo dice una ricerca svedese, Roland Paulsen). E se non si lavora, di attività per riempire il tempo destinato all’ufficio ce n’è una lista infinita. Il sito web Salary.com ha raccolto le più diffuse attraverso l’indagine Wasting time at work. Fra le persone che hanno risposto al questionario on line, l’89% confessa di perdere tempo in ufficio occupandosi d’altro. Di questi, circa un quarto naviga in internet (la maggior parte facendo ricerche su Google o aggiornando il proprio status su Facebook); una percentuale simile, poi, incolpa meeting inutili: non a caso sui social network sta riscuotendo successo la lista dei 10 trucchi per sembrare intelligente alle riunioni, utili suggerimenti se durante il meeting “cominci a fantasticare sulla tua prossima vacanza, sulla pennichella che non vedi l’ora di fare o su un piatto di bacon”. Il 12% dei partecipanti risponde a email, il 7% deve discutere con superiori seccanti, il 4% è occupato nel social networking (ribattezzato social not-working dal Boston Globe) e il 2% risponde a telefonate personali. I “perditempo” sembrano essere in maggioranza (risicata) uomini, non sposati, e fra i 26 e i 39 anni. 

Lo studio di Roland Paulsen registra che al volgere del nuovo millennio il 70% del traffico internet statunitense nelle ore d’ufficio era costituito da siti web pornografici, e che il 60% di tutti gli acquisti on line veniva fatto fra le 9 e le 17; un’abitudine dilagante non solo negli Stati Uniti, questa, ma rilevante anche a Singapore, Germania e Finlandia, secondo alcuni studi condotti fra il 2005 e il 2011. Pur considerati i limiti della ricerca di Paulsen, dettati da un campione relativamente esiguo di casi esaminati (seppur incrociati con quelli di altre indagini scandinave), il ricercatore svedese giunge a un’amara considerazione: “Il lavoro duro non paga necessariamente. Quello che produci, il contributo che tu dai alla tua organizzazione non ti permetteranno di ottenere alcuna ricompensa, a meno che il tuo lavoro non sia riconosciuto come tale dagli altri. Al lavoro, non è importante ciò che fai, ma ciò che sembra che tu stia facendo”. Se il lavoro viene vissuto attraverso le esperienze frustranti che conseguono a questa situazione, diventa “l’antitesi della libertà” e produce eserciti di impiegati infelici; così allora Paulsen arriva a leggere quello che lui definisce “lavoro vuoto” (empty labor) come resistenza alla tirannia del lavoro, un riappropriarsi del proprio tempo e della propria vita privata. I perditempo diventano militanti (soldiering), eroi moderni.

Ma “perdere tempo” è davvero allora la definizione più esatta? Diverse ricerche, infatti, avvallano la teoria che staccare ogni tanto dal lavoro sia di beneficio alla produttività. Lo dice, ad esempio, uno studio australiano, che pone alle attività personali un sensato limite del 20% del tempo totale trascorso in ufficio; o un vecchio esperimento condotto alla Cornell University, che già nel 1999 dimostrava come pause cadenzate obbligatorie fossero di beneficio al rendimento degli impiegati.  Altri studiosi hanno approfondito la questione delle occupazioni alternative più proficue: a questo proposito è curiosa la teoria sviluppata all’università di Hiroshima, secondo cui guardare on line immagini zuccherose di cuccioli di animali ha come effetto un’aumentata concentrazione dei lavoratori. 

Alcune ricerche, poi, cercano le motivazioni dell’“imboscamento” ripetuto da parte degli impiegati: secondo Salary.com, ad esempio, più della metà degli intervistati sono convinti che brevi pause siano in effetti necessarie per prolungare la concentrazione, ma una buona parte si occupa d’altro semplicemente per noia, disinteresse, mancanza d’incentivi, insoddisfazione o semplicemente perché nessuno controlla. Si è concentrato su questo punto Russell Engel, della Sacred Heart University, in una pubblicazione dal titolo eloquente Perché lavorare quando puoi farne a meno? (Why work when you can shirk?), nella quale si definisce “imbroglione razionale” (rational cheater) “chi s’imboscherà quando il beneficio marginale sarà superiore al suo costo; e non s’impegnerà nel lavoro se pensa di poterne fare a meno”, arrivando alla conclusione (ovvia) che “i lavoratori che hanno la possibilità di imboscarsi, in effetti lo fanno, ma se vengono sorvegliati tale comportamento si riduce”. 

Nonostante la maggioranza di ricerche a favore, comunque, a questo fenomeno alcune aziende rispondono limitando i minuti per andare in bagno in orario di lavoro, anche in Italia, e molte altre vietando l’uso dei social network, anche se con efficacia relativa (una persona su tre aggira comunque il divieto, assicura la Samsung). Non stupisce, allora, che l’attaccamento al lavoro si riduca e che in molti siano disposti a dedicarsi ad altro per riconquistare una vita privata, erosa dal ticchettio dei tasti, del guadagno (in particolare altrui) a discapito della soddisfazione (propria). A costo di piazzarla in orario d’ufficio.

Chiara Mezzalira

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