SOCIETÀ

Genetica a processo: da Lombroso a Blade Runner

“È ammesso all’esame il codice genetico dell’imputato”. Ormai non è più solo questione di ‘prova del Dna’, con cui ricollegare una traccia organica (come sangue o saliva) a una persona indiziata: sempre più spesso il genoma entra nei tribunali anche per valutare il comportamento dell’accusato. 

È ad esempio il caso di Bradley Waldroup, che nel 2006 uccise Leslie Bradshawm, amica dell’ex moglie. Waldroup sparò otto volte, tentando poi di fare a pezzi con un machete la madre dei suoi quattro figli; venne inoltre dimostrato che l’assassino aveva chiuso a chiave la porta di casa, per evitare che le vittime potessero fuggire. Tutti elementi tipici di un omicidio premeditato, che avrebbe condotto il colpevole dritto verso l’iniezione letale, se solo il suo avvocato non avesse invocato la circostanza che il cliente era affetto da una rara deficienza genetica di enzimi monoammino ossidasi: il cosiddetto ‘warrior gene’. La predisposizione innata alla violenza, assieme alla storia familiare del colpevole, segnata da abusi subiti durante l’infanzia, portarono quindi nel 2012 la corte del Tennessee ad optare per il carcere a vita.

È solo uno degli esempi riportati da Deborah W. Denno, docente presso la Fordham University School of Law, in una sua recente relazione Genetics, Robotics, Law, Punishment. La studiosa americana ha anche pubblicato un articolo sulla Michigan State Law Review, che raccoglie tutti i procedimenti penali statunitensi relativi a prove di genetica comportamentale fino al 2011. I dati dicono che i casi sono in aumento (33 tra il 2007 e il 2011, contro 48 nei tredici anni precedenti), ma tutto sommato ancora circoscritti ai delitti per i quali è prevista la pena di morte. In quasi tutti gli esempi la prova è stata richiesta dalla difesa per attenuare la pena, ed è stata esaminata in stretta relazione con altri elementi della vita dell’imputato, come la propensione all’alcol e all’abuso di stupefacenti.

Ultimamente l’utilizzo della genetica e delle neuroscienze sembra affermarsi sempre più anche nelle aule di tribunale italiane, come dimostrano recenti casi giurisprudenziali; fino ad ora però il comportamento dei giudici, al di là e al di qua dell’oceano, è sembrato in parte sfatare la cattiva fama della prova genetica comportamentale, trattata come un elemento probatorio al pari di tutti gli altri, quindi da valutare caso per caso tenendo ben presente la situazione concerta. Tanto però basta a riaccendere un dibattito antico come quello tra deterministi e i fautori del libero arbitrio. Il crimine è espressione della libertà del reo oppure, al contrario, indica una schiavitù degli istinti?

Per la seconda risposta avrebbe probabilmente optato Cesare Lombroso, convinto della natura sostanzialmente patologica del ‘delinquente nato’. Oggi è difficile trovare chi si  dedichi ancora allo studio della famosa fossetta occipitale, rinvenuta nel 1870 dal medico veronese durante l’autopsia del brigante calabrese Villella: a catalizzare l’attenzione sono piuttosto le neuroscienze e la genetica. Già nell’Ottocento si era scoperto come certi tipi di lesioni celebrali potessero influire non solo sulle capacità cognitive, ma anche sul comportamento; oggi “grazie ai progressi nella decodifica del genoma umano, cominciamo a comprendere il ruolo svolto dal patrimonio genetico nel determinare non soltanto i tratti fisici ma anche le caratteristiche della personalità – riferiscono in un recente convegno Pietro Pietrini, psichiatra, e Silvia Pellegrini, biologa – Studi recentissimi hanno dimostrato che la presenza di determinati alleli di geni implicati nel metabolismo dei neurotrasmettitori può essere associata ad un rischio significativamente maggiore di sviluppare comportamenti antisociali e di commettere atti criminali”.

Per ora l’utilizzo delle tecnologie sembra affermarsi soprattutto nel giudizio a posteriori; lo spauracchio è quello di un sistema in cui si cerchi di prevedere i comportamenti dei singoli, magari in base a una schedatura genetica o antropometrica dei cittadini. Ma, a parte questo, c’è anche chi ravvede nell’ossessione per il ‘gene del male’ la spia di una società sempre più priva di punti di riferimento e, soprattutto, impaurita: “Il risultato di una mappatura genetica può placare questa ansia, rassicurandoci sulla nostra stessa natura e facendoci sentire normali, adeguati – è intervenuta sul punto Francesca Zanuso, docente di filosofia del diritto presso l’università di Verona – Se una alterazione genetica viene pensata come causa del male, il male, allora, può essere confinato in tale alterazione genetica”. Una convinzione che potrebbe rivelarsi pericolosa, soprattutto se percepita come facile alternativa alla fatica del dialogo e del confronto: “Solo grazie al dialogo potremmo non avere paura, solo grazie ad una attività dialogica che non si riduca, come troppo spesso accade, a relativistico scambio di opinioni”. 

Daniele Mont D’Arpizio

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