SCIENZA E RICERCA

Gli eredi di Koch

Cosa renda i batteri tanto resistenti agli antibiotici è una domanda che si sono posti in molti, da quando si scoprì che ceppi batterici la cui sensibilità ai farmaci appariva indubitabile erano capaci di sviluppare forme resistenti. Decenni di uso, ed anche abuso, degli antibiotici – in particolare in occidente – hanno portato alla selezione di ceppi in alcuni casi resistenti a tutte le classi di antibiotici attualmente disponibili, determinando uno dei maggiori fattori di rischio per la sanità pubblica nel mondo. Quali sono i processi specifici che permettono questa resistenza?   

Oggi, grazie a uno studio condotto da alcuni ricercatori del Laboratorio di microbiologia e microsistemi (LMIC) del Politecnico di Losanna (EPFL), guidati da John McKinney, batteriologo di fama, si è finalmente fatto un sostanziale passo avanti a riguardo. In un articolo pubblicato nella rivista Science, i coordinatori del progetto spiegano come, alla base di questo processo di irrobustimento dei batteri, ci sia un semplice enzima. A permettere la scoperta l’impiego di nuove tecnologie che consentono di osservare il comportamento di singole cellule batteriche, studiando i batteri sulla scala loro propria - i batteri sono, lo ricordiamo, organismi unicellulari - e non solo quello di una intera popolazione.   

Al centro dello studio dell’equipe del LMIC il comportamento del Mycobacterium smegmatis, un batterio molto simile a quello della tubercolosi, in presenza del pro-Farmaco isoniazide, che agisce inibendo la formazione delle pareti cellulari e impedendo quindi lo sviluppo del batterio stesso. Le osservazioni hanno permesso di documentare che l'attivazione dell'isoniazide avviene grazie a un enzima, la catalasi perossidasi (KatG), prodotto dalla cellula batterica stessa.

"McKinney e collaboratori- commenta la dottoressa Richter, del dipartimento di Istologia, microbiologia e biotecnologie mediche dell'università di Padova - dimostrano come la resistenza di Mycobaterium smegmatis all’antibiotico isoniazide non sia dovuta a variazioni permanenti a livello genetico, ma piuttosto a una dinamica casuale di espressione genica delle singole cellule. In particolare, l’enzima catalasi-perossidasi è responsabile dell’attivazione dell’isoniazide in prodotto tossico per i batteri. Gli autori evidenziano come le cellule che esprimono questo enzima siano più suscettibili all’antibiotico. La novità è la dimostrazione che la resistenza si evidenzia in cellule in crescita attiva che in modo dinamico e casuale esprimono l’enzima KatG, probabilmente a causa di variazioni epigenetiche, cioè variazioni che non coinvolgono permanentemente i geni batterici. Questi dati confutano la finora accettata teoria che la resistenza emerga fra le cellule batteriche in fase stazionaria, cioè in fase di non crescita, e spiegano da un punto di vista meccanicistico il veloce adattamento dei batteri a stimoli esterni mai incontrati durante la loro storia evolutiva".

Se fino a questo momento, dunque, si riteneva che la popolazione di batteri resistenti fosse costituita da un gruppo di cellule di numero fisso, che smettevano di dividersi, questo studio ha evidenziato come invece alcuni batteri continuino a replicarsi mentre altri muoiono per l’effetto degli antibiotici. La popolazione resistente è perciò molto dinamica, e le cellule che la compongono sono in costante cambiamento, anche se in realtà il numero complessivo rimane costante. Proprio perché sono in grado di riprodursi, i batteri possono mutare e sviluppare la resistenza.

Questa scoperta risulta particolarmente significativa in quanto aiuterebbe le case farmaceutiche a formulare medicinali più efficaci per contrastare le resistenze dei “superbatteri”. Una delle malattie che vedrebbe maggiori risultati nelle possibilità di affrontarla è la tubercolosi. Il bacillo di Koch, responsabile della tubercolosi nell'uomo, è particolarmente resistente ai fattori ambientali e soprattutto a molti degli antibiotici formulati finora, ed è strettamente imparentato con il Mycobaterium smegmatis al centro della ricerca.

La Tbcnon è una malattia “di altri tempi”, come alcuni potrebbero pensare. Meno capace di colpire l’immaginario della peste (Yersinia pestis) o della lebbra (Mycobaterium leprae), la tubercolosi si è dimostrata molto più resistente ed è oggi, al contrario di queste, una malattia tutt’altro che sconfitta. Il rapporto effettuato per il 2012 dall'Organizzazione mondiale della sanità sulla diffusione della Tbc nel mondo, ha dimostrato come il suo impatto globale sia enorme e in continua crescita; i livelli di mortalità sono stimati in circa due milioni di decessi l'anno, e sono quasi nove milioni ogni anno i nuovi casi segnalati.

In ambito scientifico la ricerca è stata accolta con grande entusiasmo: la possibilità che si profila è quella di una completa revisione delle attuali teorie sull’adattamento dei batteri all’esposizione agli antibiotici, con importanti sviluppi nella messa a punto di terapie efficaci. Ora è auspicabile la massima collaborazione per lo sviluppo di queste scoperte, per permettere un riscontro effettivo nel salvataggio di molte vite umane.

Gioia Baggio

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