SCIENZA E RICERCA

In Salute. Resistenza antimicrobica e cambiamento climatico: un’interazione pericolosa

Tra gli effetti collaterali del rapido sviluppo scientifico, tecnologico, economico e sociale di cui le società umane hanno goduto, pur in modo tutt’altro che equo, negli ultimi due secoli, vi sono due dei più preoccupanti rischi globali oggi esistenti: la crisi climatica e l’antimicrobico-resistenza. Queste due emergenze sono distinte, ma hanno molti punti di contatto. Come ha puntualmente sottolineato la microbiologa colombiana Maria Mercedes Zambrano in un lungo articolo pubblicato sulla rivista Annual Review of Genetics, entrambe derivano dalle scelte e dalle necessità legate allo stile di vita contemporaneo.

Le similitudini e le connessioni tra il cambiamento climatico e la diffusione di microrganismi resistenti ai farmaci sono diverse. Una delle più rilevanti è senz’altro che entrambe queste crisi hanno un profondo impatto sulla salute pubblica: di anno in anno sale il numero di morti causato rispettivamente dalle conseguenze negative del cambiamento climatico (ondate di calore, eventi estremi, insicurezza alimentare e idrica) e dalla diffusione di batteri e altri microbi resistenti ai farmaci.

Resistenza antimicrobica

L’acquisizione di geni che rendono possibile o favoriscono l’antimicrobico-resistenza non è un fenomeno direttamente legato al cambiamento climatico: come spiega Zambrano nel suo articolo, lo sviluppo di varie forme di resistenza è un fenomeno del tutto naturale, tanto è vero che geni per l’antimicrobico-resistenza sono stati individuati in fossili, reperti archeologici, nel permafrost e in ambienti remoti e incontaminati, dimostrando come la loro evoluzione non sia necessariamente causata da forzanti di natura antropica.

È addirittura possibile mappare l’insieme dei geni che conferiscono resistenza ai farmaci e che sono presenti in un ambiente naturale: si parla, in questo caso, di resistoma ambientale. Ovviamente, lo sviluppo di questi geni non è legato all’interazione con i farmaci umani: i geni di resistenza svolgono varie funzioni ecologiche, e si sviluppano probabilmente in risposta a determinate interazioni all’interno degli ecosistemi, fornendo agli organismi che li acquisiscono un vantaggio adattativo.

Oggi, tuttavia, questo fenomeno naturale è alterato dall’interazione con le attività umane. Ne è sintomo la distribuzione geografica dei geni di resistenza, che sono particolarmente concentrati negli ambienti più pesantemente modificati dalla mano umana, come le aree urbane e agricole. Inoltre, le attività umane hanno contribuito in modo significativo a modificare le modalità e la velocità di diffusione di questi geni: Zambrano evidenzia che “attività umane come il turismo, il commercio e lo smaltimento dei rifiuti sono responsabili del movimento dei microbi su scala globale e del superamento delle barriere geografiche”.

Ma il principale contributo delle attività umane all’aggravarsi del problema della resistenza antimicrobica non è tanto l’accresciuta movimentazione di organismi microscopici, quanto piuttosto l’imposizione di nuove pressioni selettive attraverso un uso vastissimo e sconsiderato di farmaci antimicrobici e il conseguente innesco di una vera e propria “corsa agli armamenti” evolutiva.


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Interazioni con il cambiamento climatico

Un altro articolo scientifico, pubblicato da un gruppo di ricercatori dell’università di Catania sull’International Journal of Environmental Research and Public Health, evidenzia come la crisi climatica aggravi il problema dell’antibiotico-resistenza in modo diretto e indiretto.

Tra gli effetti diretti si ricorda, in primo luogo, l’innalzamento delle temperature medie annuali del pianeta: questo influisce sull’antimicrobico-resistenza aumentando i tassi di crescita di batteri e favorendo il fenomeno del trasferimento genico orizzontale, che è il meccanismo primario attraverso cui i geni di resistenza vengono condivisi tra i batteri. Inoltre, con l’aumento delle temperature si estendono le nicchie ecologiche adatte alla sopravvivenza di animali vettori di agenti patogeni tipicamente tropicali come la Zika, la chikungunya o la dengue. È stato osservato che, in generale, esiste una correlazione tra l’aumento delle temperature, la densità di popolazione e l’aumento dei tassi di resistenza antimicrobica.

Nel caso dei batteri, l’esposizione prolungata ad alte temperature non ha solo il risvolto di aumentare i tassi di crescita delle popolazioni. Come evidenziato in un articolo di prospettiva pubblicato su Nature, l’esposizione a uno stress ambientale come la temperatura elevata induce i batteri a rispondere con dei pattern di espressione genica molto simili a quelli osservati in reazione all’interazione con alcuni antibiotici. Questo suggerisce che possa esserci un legame – per quanto ancora poco chiaro – tra l’esposizione ad alte temperature e i meccanismi di resistenza agli antibiotici.

Ma la diffusione dell’antimicrobico-resistenza potrebbe essere facilitata dal cambiamento climatico anche in assenza di un impatto diretto sui microrganismi patogeni. Ad esempio, in presenza di ondate di calore prolungate, le abitudini e gli stili di vita delle persone si modificano: si sta più al chiuso, e questo crea le condizioni ideali per la diffusione di patogeni.

Un altro modo in cui il cambiamento climatico aggrava la crisi della resistenza antimicrobica è l’aumento degli eventi estremi: ad esempio, le sempre più frequenti precipitazioni anomale, che in alcuni casi provocano alluvioni, peggiorano le condizioni dell’igiene pubblica, favorendo una più rapida diffusione di agenti patogeni e creando maggiori opportunità di contatto tra questi. Come specificano Magnano San Lio e colleghi, autori della Review pubblicata sull’International Journal of Environmental Research and Public Health, «L’aumento delle temperature è strettamente legato alle alluvioni, alle migrazioni forzate e al sovraffollamento causato da tempeste e forti precipitazioni. Questi eventi determinano un aumento delle malattie trasmissibili attraverso l’acqua, condizione che a sua volta aumenta la pressione sui sistemi sanitari e, in generale, conduce al potenziale collasso delle infrastrutture igienico-sanitarie».

L’altra faccia della medaglia è la siccità: anch’essa, spiegano i ricercatori di Catania, «insieme alla scarsità di cibo e al declino dei sistemi sanitari, determina un più elevato rischio di contrarre infezioni gastrointestinali antibiotico-resistenti».

Crisi ambientale e antimicrobico-resistenza

L’aumento delle temperature e la maggiore frequenza di eventi estremi non sono gli unici aspetti della crisi ambientale che incidono negativamente sull’antimicrobico-resistenza: l’inquinamento, ad esempio, è un altro fattore che contribuisce ad aggravare questa emergenza. Le microplastiche, ormai pressoché onnipresenti in natura (e finanche nei tessuti degli organismi viventi, umani compresi), sono state riconosciute come potenziali vettori di geni di resistenza, poiché queste microscopiche molecole disperse nell’ambiente fungono da trasportatore per batteri e altri microrganismi, favorendo così il trasferimento genico orizzontale. Anche altre sostanze inquinanti presenti nell’ambiente, come i fertilizzanti e i concimi largamente utilizzati in agricoltura o gli antibiotici somministrati in modo indiscriminato negli allevamenti terrestri e acquatici sembrano aumentare i livelli di antimicrobico-resistenza.

Questa inquietante interazione rischia di generare – a ben guardare, ciò sta già avvenendo – un circolo vizioso che si autoalimenta: a fronte di un aumento della diffusione degli agenti patogeni resistenti, sarà necessario ricorrere a un uso ancora più massiccio di farmaci, il che porterà a sua volta a un ulteriore aumento della probabilità che si sviluppo microbi “super-resistenti”.

Serve una strategia congiunta

Vista la problematica interazione tra le due crisi ambientali e sanitarie descritte, la strada più ragionevole da prendere – e quella caldamente suggerita dagli scienziati che si occupano di questi temi – è quella di elaborare una strategia congiunta, che consenta di affrontare le cause sottostanti e comuni alle due emergenze. Come auspicato da organismi internazionali di primo piano quali l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e l’UNEP (Programma Ambientale delle Nazioni Unite), è importante costituire iniziative che coinvolgano in modo unitario gli attori internazionali e li indirizzino verso il raggiungimento di obiettivi comuni, come ad esempio il terzo Obiettivo dell’Agenza 2030 dell’ONU, che mira ad “Assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età”, e il sesto, che intende “Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie”.

Gli sforzi in tal senso devono esplicarsi su due fronti separati ma complementari: quello della ricerca e quello delle decisioni politiche. Dal punto di vista della ricerca, si stanno compiendo molti passi avanti nello sviluppo di nuovi farmaci e nella sempre più puntuale comprensione dei meccanismi che portano allo sviluppo della resistenza. Ma ciò non è sufficiente: come viene evidenziato da più parti, è necessario adottare un approccio olistico che riconosca le profonde interconnessioni tra i diversi aspetti problematici del rapporto tra le società umane e i sistemi naturali. Questo approccio, sempre più diffuso, è noto come One Health, e riconosce l’intimo legame tra la salute degli umani, quella delle altre specie e dell’ambiente in generale.

Limitare l’uso dei farmaci antimicrobici (come gli antibiotici) è necessario ma non sufficiente. Al tempo stesso, bisogna implementare azioni di mitigazione del cambiamento climatico e di tutela degli ecosistemi per ridurre le occasioni di contatto tra gli umani e la fauna selvatica (condizione perfetta per lo sviluppo di zoonosi, come abbiamo imparato a nostra spese con la diffusione di SARS-CoV-2), limitare l’aumento degli eventi estremi, con gli effetti collaterali che essi hanno sulla salute umana, e ridurre l’impronta antropica sugli ecosistemi naturali.


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