SCIENZA E RICERCA
Resistenza antimicrobica: una minaccia globale da affrontare su più fronti
Colonia di Streptococcus Pneumoniae immunoresistenti. Foto: CDC/Unsplash
“Una delle più gravi minacce sanitarie del nostro tempo”: così Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS), ha definito la resistenza che molti microrganismi stanno sviluppando, da alcuni anni a questa parte, ai farmaci antimicrobici, di cui gli antibiotici sono un noto esempio. È un fenomeno preoccupante e in rapida crescita, che l’OMS monitora con attenzione.
Per avere un’idea delle dimensioni del problema, basta guardare ai numeri: come riporta il sito dell’OMS in riferimento agli antibiotici, sono stati registrati, in varie parti del mondo, tassi di resistenza ad un antibiotico di uso comune come la ciprofloxacina variabili tra l’8,4% e il 92,9% in Escherichia coli e tra il 4,1% e il 79,4% in Klebsiella Pneumoniae. Quest’ultimo è un batterio intestinale che, soprattutto in ambito nosocomiale, può causare infezioni di vario genere, anche di gravità elevata, che colpiscono soprattutto le vie respiratorie e il tratto urinario. Preoccupante è anche l’emergere di ceppi resistenti ai farmaci del Mycobacterium tubercolosis, fenomeno che rischia di impedire il controllo della tubercolosi, malattia che ancora oggi è fra le prime cause di morte a livello globale (più di un milione di morti ogni anno). Nel 2018, riporta l’OMS, sono stati registrati più di 500.000 casi di infezioni resistenti alla rifampicina, l’antibiotico più utilizzato come cura della tubercolosi; di questi, gran parte presentava multiresistenza. Secondo un rapporto stilato dall’Interagency Coordination Group on Antimicrobial Resistance (IACG) delle Nazioni Unite nel 2019, entro il 2050 i “superbatteri” e altri microrganismi multiresistenti – tra cui virus, funghi e altri parassiti – potrebbero causare, nel mondo, fino a 10 milioni di morti l’anno.
Per approfondire la questione e comprendere più a fondo quali sono i rischi e le frontiere della ricerca, ci siamo rivolti al professor Silvio Garattini, medico farmacologo, presidente dell’Istituto Mario Negri di Milano. Il tema non riguarda solo i paesi in via di sviluppo: la resistenza agli antibiotici è in costante aumento anche da noi, in Europa: «Fra i paesi europei – spiega il professore – l’Italia è uno dei più colpiti dal fenomeno: la ragione è che utilizziamo grandissime quantità di antibiotici, sia per uso umano che in ambito veterinario, negli allevamenti intensivi ma anche per gli animali domestici. Dei 30.000 decessi annui, in Europa, attribuibili a patogeni immunoresistenti, 10.000 si verificano in Italia: un triste primato.
L'intervista completa al prof. Silvio Garattini. Montaggio di Barbara Paknazar
A questo abuso degli antibiotici va imputato lo sviluppo della resistenza in molti microrganismi: questi, infatti, sono in grado di sviluppare enzimi che modificano la struttura degli antibiotici, oppure di rafforzare la propria membrana cellulare in modo da renderla resistente all’attacco dei farmaci».
È un semplice processo evolutivo: i patogeni che sopravvivono alle terapie antimicrobiche presentano varianti resistenti ai farmaci disponibili; la scienza, allora, corre ai ripari, sviluppando nuove tecnologie per il contrasto alle infezioni. È una “corsa agli armamenti” potenzialmente infinita. La ricerca scientifica è, in tal senso, impegnata nell’individuare composti che diano all’uomo un vantaggio sui germi: fra le ultima novità della ricerca vi è la scoperta, frutto del lavoro di un gruppo di studiosi del Winstar Institute di Philadelphia, di una nuova potenziale classe di antibiotici che si basa su una tecnica duplice: questi farmaci, infatti, non si limitano ad attaccare i microrganismi, ma al tempo stesso potenziano la risposta del sistema immunitario dell’organismo ospite nei confronti dei patogeni attivando le cellule T γδ, coinvolte nella risposta immunitaria a diverse infezioni batteriche e virali. La ricerca, presentata in un articolo pubblicato da Nature, consiste nell’individuazione di una molecola che ha la capacità di innescare questa dual activity, come la definisce Garattini: «Da una parte, la molecola inibisce l’enzima IspH, necessario per la sintesi degli isoprenoidi, composti essenziali per la formazione della membrana cellulare dei batteri; dall’altra, stimola le difese immunitarie del paziente, fornendo un’ulteriore protezione dai batteri».
La ricerca scientifica non può tutto, e sarebbe ingenuo affidarsi soltanto ad essa nella gestione di questo problema. Stando alle linee guida diramate dall’OMS, è importante da una parte implementare la cooperazione internazionale sul monitoraggio e la gestione (anche in termini di condivisione di dati e di sviluppi della ricerca) dell’emergenza, e dall’altra puntare sulla prevenzione, ad esempio informando i cittadini sulle corrette modalità di assunzione degli antibiotici.
La resistenza antimicrobica, inoltre, non solo avrà pesanti conseguenze in ambito sanitario, ma impatterà su moltissimi aspetti della vita sociale: secondo quanto sottolineato dall’OMS in un recente rapporto, è probabile che rallenti addirittura il percorso verso la realizzazione di molti degli Obiettivi di Sostenibilità dell’Agenda 2030, tra cui – oltre al diritto alla salute (Goal 3) – l’eradicazione della fame (Goal 2), il diritto all’acqua (Goal 6), la produzione e il consumo responsabili (Goal 12), il partenariato internazionale (Goal 17).
È necessario, dunque, che si affronti la questione con un approccio olistico, mediante uno sforzo coordinato e trasversale alle diverse problematiche. Un primo passo consiste nel garantire una migliore informazione sul tema: l'Italia, ad esempio, è molto indietro in questo. «Circa il 60% degli italiani crede che gli antibiotici siano in grado di uccidere i virus: il grande impiego degli antibiotici per curare l'influenza è un tipico esempio di utilizzo improprio di questi farmaci dovuto alla mancanza di conoscenza». «Molti (il 38% della popolazione italiana) credono – sottolinea il professore – che il raffreddore (un'infezione virale) sia indotto da batteri; il 15% dei pazienti, infine, tende a interrompere il trattamento antibiotico alla scomparsa dei sintomi, ritenendo erroneamente che l'assenza di sintomi coincida con la fine dell'infezione». Tutte queste azioni incidono sulla salute pubblica nella misura in cui aumentano la resistenza dei batteri, che vengono esposti ai farmaci in quantità non sufficienti per ucciderli, e alle quali hanno perciò il tempo di adattarsi.
«Rallentare lo sviluppo della resistenza agli antimicrobici è una priorità», conclude Garattini. «Se non si agisce prontamente, rischiamo di tornare ad una situazione sanitaria simile a quella precedente alla scoperta degli antibiotici, in cui le condizioni di salute sarebbero scarse e l'aumento dell'aspettativa di vita a cui abbiamo assistito finora diverrebbe impossibile».