SCIENZA E RICERCA
La resistenza agli antibiotici parte già dal nostro intestino

Foto: Volodymyr Hryshchenko/Unsplash
La resistenza dei microbi ai farmaci sviluppati per contrastarli è uno dei più gravi problemi di salute pubblica dei decenni recenti. Mette in discussione l’efficacia e la sicurezza di molte pratiche mediche e rappresenta un problema grave e di difficile gestione soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, a causa di condizioni socio-economiche complesse. Inoltre, si stima che sia una delle principali cause di mortalità al mondo (alla resistenza antimicrobica va imputato circa il 9% dei decessi annuali nel 2019, secondo uno studio comparso su The Lancet).
In larga parte, l’estendersi di questo fenomeno è dovuto all’uso improprio ed eccessivo dei farmaci antimicrobici (di cui gli antibiotici sono la categoria più nota e diffusa) per la salute umana, animale e vegetale (anche se, per quanto riguarda piante e animali, l’uso degli antibiotici ha principalmente finalità commerciali). Ma quali sono i meccanismi che determinano nei microrganismi l’evolversi della resistenza ai farmaci?
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Evoluzione in tempo reale
Si tratta di un perfetto caso di evoluzione tramite pressioni selettive e di “corsa agli armamenti” evolutiva, che è possibile osservare quasi in tempo reale – è stato infatti dimostrato che la resistenza si sviluppa nei microrganismi soprattutto nei mesi immediatamente successivi all’esposizione ad antibiotici. In molti casi, quando si utilizza un antibiotico, l’esposizione prolungata, oppure troppo breve, o ancora in concentrazioni troppo basse tenderà a ridurre l’ampiezza della popolazione microbica che si intende eliminare, ma non sarà in grado di estirparla del tutto. I pochi sopravvissuti, allora, saranno coloro che avranno avuto le caratteristiche (solitamente, delle mutazioni genetiche) utili per rispondere alla pressione selettiva sopraggiunta (in questo caso, il farmaco). Queste mutazioni saranno poi trasmesse ai discendenti – e, nel caso dei batteri, anche agli altri membri della popolazione grazie al meccanismo del trasferimento genico orizzontale, che consente ai batteri di scambiare materiale genetico al di fuori della relazione riproduttiva, e persino con individui di altre specie – e si diffonderanno nella popolazione, che diverrà così una popolazione resistente a uno o più farmaci antibiotici.
Ad oggi, lo studio di questi meccanismi avviene principalmente in laboratorio o attraverso la sperimentazione animale. Questi approcci, tuttavia, presentano inevitabilmente condizioni semplificate, che non consentono di comprendere a pieno la complessità degli ambienti in cui, nel mondo reale, la resistenza antimicrobica si sviluppa.
Uno studio in vivo
Per ovviare a questi limiti, un gruppo di ricercatori dell’università statunitense di Stanford ha elaborato un esperimento in vivo, i cui risultati sono riportati in un articolo pubblicato su Nature. A una coorte di sessanta individui sani è stata somministrata la ciprofloxacina, un antibiotico appartenente alla classe dei fluorochinoloni, farmaci antibatterici ad ampio spettro tra i più comunemente impiegati in ambito sanitario. Per controllare l’evoluzione delle popolazioni di batteri commensali che compongono il microbiota intestinale dei sessanta soggetti, i ricercatori hanno analizzato diversi campioni fecali raccolti nel corso di venti settimane, durante le quali era stato somministrato ai partecipanti un ciclo di ciprofloxacina della durata di cinque giorni.
Con questo studio, i ricercatori speravano di rispondere a diverse domande: innanzitutto se la il farmaco svolga soltanto una funzione selettiva su mutazioni già esistenti, oppure se induca nei batteri lo sviluppo di nuove mutazioni (se, quindi, il processo sia ecologico o autenticamente evolutivo); inoltre, i ricercatori miravano a comprendere quanto a lungo le mutazioni che conferiscono resistenza potessero essere conservate dopo la fine dell’esposizione al farmaco.
Attraverso il sequenziamento genico dei campioni di microbiota intestinale dei membri della coorte, i ricercatori hanno isolato circa 5.600 genomi, ognuno rappresentante una popolazione distinta. Sono state individuate 924 specie appartenenti a 378 generi e 81 diverse famiglie. Gli studiosi hanno sviluppato un metodo computazionale che, sfruttando l’alta qualità dei dati raccolti durante la fase di monitoraggio, permettesse di individuare i polimorfismi (le mutazioni genetiche, anche puntiformi – cioè relative a un solo o pochi nucleotidi – verificatesi nelle popolazioni di specie batteriche del microbiota di un solo individuo) emersi nelle varie popolazioni in diversi momenti temporali. Con questo metodo, si è mostrato che ben 513 popolazioni (più del 10% delle 1.866 popolazioni infine considerate), appartenenti a 212 specie batteriche, presentavano varianti genetiche “nuove” e in rapida diffusione, un chiaro segno che le regioni coinvolte nelle mutazioni fossero state sottoposte di recente a selezione naturale.
L’evoluzione della resistenza
Solitamente, avviene che non solo il punto del genoma “interessato” dalla selezione muti, ma che mutino con esso anche altri loci ad esso collegati (il fenomeno è noto come genetic hitchhiking, ed è dovuto all’associazione genetica tra diversi alleli). Sfruttando questo fattore, i ricercatori hanno cercato segnali del fatto che, di fronte alla medesima pressione selettiva (la ciprofloxacina), gli stessi geni evolvessero parallelamente in diverse popolazioni e nei diversi partecipanti allo studio. E in effetti, è stato notato che molto spesso la variazione riguardava il gene gyrA, che è uno dei geni target dei fluorochinoloni, di cui questi antibiotici inibiscono l’attività (che consisterebbe nella produzione dell’enzima DNA-girasi, essenziale per la replicazione cellulare). I ricercatori hanno riscontrato che «il 10,2% delle popolazioni batteriche suscettibili [all’azione dei fluorochinoloni] aveva evoluto una resistenza attraverso mutazioni nel gene gyrA».
Un altro degli obiettivi di questo studio era capire quali fossero i fattori che rendono una popolazione più predisposta a sviluppare rapidamente mutazioni e ad evolvere – in altri termini, cosa influenzasse la sua “evolvibilità”. Le analisi condotte sui campioni raccolti hanno mostrato che l’evoluzione del gene gyrA spiegava solo il 40% dell’evolvibilità complessiva: questo suggerisce – scrivono gli autori della ricerca – «il possibile ruolo di traiettorie evolutive alternative in risposta agli antibiotici». In un ambiente stratificato e complesso, insomma, è difficile isolare una singola causa: diversi fattori interagiscono e concorrono a rendere possibile l’evoluzione della resistenza nei microrganismi.
Un altro risultato interessante riguarda i fattori predittivi dello sviluppo di resistenza individuati dai ricercatori: tra questi, un predittore molto attendibile è l’estensione della popolazione batterica. Nello studio, è emersa con evidenza l’associazione tra il forte declino quantitativo subìto da una popolazione durante l’esposizione all’antibiotico e la sua probabilità di sviluppare una variante genetica che conferisse resistenza al farmaco. Questo dato è di grande interesse anche per la pratica clinica: conoscere le condizioni delle popolazioni batteriche che compongono il microbiota (ad esempio, la loro ampiezza) prima dell’inizio di un trattamento antibiotico può indirizzare verso un utilizzo dei farmaci più oculato, e quindi più efficace: si tratta di una scoperta che consente di muovere un passo avanti verso una medicina personalizzata, che calibri le cure in base alle effettive condizioni del paziente da trattare – e, in questo caso, anche dei microrganismi che lo abitano.
Anticipare le mosse evolutive dei batteri
Infine, la lunga durata del monitoraggio ha permesso di valutare anche la persistenza delle mutazioni a diverse settimane dalla fine dell’esposizione al farmaco. I ricercatori hanno riscontrato che, a dieci settimane dalla fine dell’esposizione, gran parte delle varianti geniche mantenevano una frequenza alta. Ipotizzando che il costo del mantenimento delle mutazioni – in termini di sopravvivenza e successo adattativo – rimanesse invariato, la proiezione a un anno di distanza ha mostrato che le mutazioni sarebbero state ancora presenti, seppur con una diffusione minore. Anche questo è un risultato interessante (e preoccupante), perché suggerisce che le mutazioni che conferiscono resistenza agli antibiotici non siano “costose” per i batteri, e dunque possano essere mantenute a lungo e diffondersi nelle popolazioni anche in assenza di un’esposizione diretta agli antibiotici.
Questo studio in vivo mostra i rischi di ogni esposizione agli antibiotici, poiché anche un’esposizione limitata può indurre nei batteri mutazioni per la resistenza che potrebbero permanere a lungo, visto il loro basso costo in termini evolutivi. Inoltre, queste popolazioni intestinali esposte a pressioni selettive potrebbero agire come “bacini” di mutazioni a cui altre popolazioni o specie batteriche potrebbero attingere qualora dovessero affrontare nuove pressioni selettive (cioè, nuovi farmaci).
Per comprendere e affrontare con strumenti adeguati la sfida della resistenza antimicrobica è dunque imprescindibile adottare un approccio che tenga conto della natura ecologica ed evolutiva di questo fenomeno, lavorando sulla prevenzione (ad esempio, potenziando la medicina personalizzata) e riducendo, per quanto possibile, l’impiego smodato di farmaci antimicrobici.