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In Salute. Resistenza antimicrobica: diminuisce l'impatto del comparto zootecnico

A generare l’attuale crisi sanitaria della diffusione della resistenza antimicrobica hanno contribuito diversi fattori. Tra i principali va senz’altro annoverato l’uso smodato e scorretto dei farmaci antimicrobici sia nella salute umana, sia in ambito veterinario e zootecnico. In quest’ultimo settore, la cui ampiezza e il cui valore economico sono cresciuti in modo esponenziale in concomitanza con il fenomeno della Grande Accelerazione e del boom demografico globale successivi alla Seconda Guerra Mondiale, il massiccio ricorso a farmaci antimicrobici è stato la norma per molto tempo, e a lungo si sono trascurati i rischi derivanti da questo genere di pratiche.

Oggi, tuttavia, è maturata una nuova consapevolezza degli effetti negativi di un uso non adeguatamente regolamentato di questi strumenti. L’Europa, in particolare, è la regione del mondo con le direttive e i regolamenti più all’avanguardia per quanto riguarda la tutela della salute pubblica. Tuttavia, le imprudenze e le inadempienze del passato hanno lasciato tracce profonde: per questo motivo, oggi è necessario individuare gli strumenti più efficaci per far fronte a un problema sanitario tuttora in crescita come quello della diffusione di resistenza ai farmaci nei patogeni (soprattutto batteri, miceli e parassiti).

L'intervista completa ad Antonia Ricci, direttrice IZS Venezie. Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Barbara Paknazar

Più consapevolezza, regole più stringenti

Come ricorda Antonia Ricci, direttrice generale dell'Istituto Zooprofilattico sperimentale delle Venezie, in passato sono stati commessi molti errori: «Tra le pratiche più dannose diffuse anche in Europa fino ad alcuni decenni fa vi è l’utilizzo degli antibiotici come promotori di crescita negli animali da reddito. In Europa, questa pratica appartiene ormai al passato: venne infatti bandita alla fine degli anni ’90, quando finalmente si comprese quanto avesse avuto un ruolo centrale nell’insorgenza di antibiotico-resistenza. Il trattamento consisteva nel somministrare agli animali da allevamento basse dosi di antibiotici per velocizzare la loro crescita». L’obiettivo di breve termine di questo genere di pratica, tuttora in uso soprattutto nei paesi in via di sviluppo, è ridurre i costi e aumentare la produttività; ma la mancanza di una prospettiva di medio e lungo periodo ha sempre dei costi, che in questo caso si sono materializzati nell’aumento della diffusione di geni che conferiscono ai batteri resistenza agli antibiotici. «Non è un caso – prosegue Ricci – che, non appena interrotta questa pratica, il livello di antibiotico-resistenza per alcune molecole è cominciato a calare».

Un fenomeno ecologico

Il meccanismo biologico sottostante alla resistenza antibiotica è semplice: quando si espone una popolazione di batteri a una pressione selettiva (qual è un farmaco antibiotico) a basse concentrazioni, quella popolazione sarà probabilmente decimata, ma non sterminata. A sopravvivere saranno gli individui che, per contingenza, possiedono caratteristiche che conferiscono loro una qualche forma di resistenza. Mediante la riproduzione (e, nel caso dei batteri, anche tramite trasferimento genetico orizzontale), questi sopravvissuti tramanderanno alle generazioni successive proprio quei geni che hanno garantito loro la sopravvivenza, e a poco a poco la discendenza di questi batteri resistenti si diffonderà.

Un altro fattore spiegato dalla biologia è la nostra ‘parentela’ evolutiva con la maggior parte degli animali domestici (in particolare i mammiferi). «Alcuni antibiotici che si usano nell’uomo – approfondisce Evelina Tacconelli, professoressa di malattie infettive all’università di Verona e consulente per la prevenzione delle infezioni resistenti agli antibiotici per Oms ed Ecdc – sono gli stessi impiegati negli animali, altri sono molto simili, altri ancora vengono utilizzati solo nel settore veterinario». La colistina per esempio è stata usata per decenni in ambito zootecnico e approvata per uso umano come antibiotico di ultima scelta in casi gravi di infezioni da gram-negativi, ma l’uso intensivo negli animali ha generato meccanismi di resistenza nei batteri. «Ora c’è una legge molto ferrea sull’utilizzo di alcuni antibiotici e anche su questo ci sono delle classificazioni. Esistono farmaci impiegati negli animali che sono categorizzati oggi come importanti per l’uomo. Tutte le più grandi associazioni mondiali hanno dato indicazioni per l’uso degli antibiotici negli animali, proprio per la relazione che esiste tra i due comparti: se un antibiotico è molto importante per gli esseri umani, le linee guida raccomandano di usarlo nell’animale solo se veramente necessario a curarlo, non a scopo preventivo né per farlo ingrassare», aggiunge Tacconelli.

L’infettivologa spiega che l’antibiotico nell’animale funziona come nell’uomo: «Quando viene ingerito modifica la composizione dei microrganismi nell’intestino, nella cute, nel liquido all’interno dei polmoni, dato che il corpo è formato da milioni di batteri». Nella filiera di produzione della carne, gli animali possono trasmettere batteri resistenti all’essere umano, dato che con la cottura a scopo alimentare non vengono distrutti. «In una persona sana rimangono nel corpo per circa tre mesi, in una malata il microrganismo resistente può passare facilmente dall'intestino al sangue e andarsi a localizzare, per esempio, nel polmone causando una polmonite, o andare a infettare il catetere venoso centrale di chi sta facendo chemioterapia».

Essere consapevoli dei processi biologici ed ecologici con i quali si ha a che fare è importante per tutelare la salute pubblica. È essenziale, dunque, tentare di individuare un compromesso tra le esigenze economiche e logistiche dettate da un modello d’impresa come quello dell’allevamento intensivo e la necessità di mantenere livelli di sicurezza adeguati. «Una delle modalità d’azione più diffuse in zootecnia è il trattamento di massa: in un allevamento intensivo, infatti, in caso di infezione è impensabile curare i singoli animali malati, ma si usa effettuare trattamenti sanitari su tutta la “batteria” in contemporanea per evitare il diffondersi della malattia», spiega la direttrice dell’IZS delle Venezie. «Questo avviene soprattutto negli allevamenti avicoli e, più raramente, negli allevamenti di suini, dove in alcuni rari casi è possibile utilizzare gli antibiotici a scopo preventivo (si parla, in tal caso, di profilassi). In Italia, questo tipo di utilizzo è oggi strettamente regolamentato attraverso la ricetta elettronica: quando il veterinario prescrive un farmaco (tanto per gli animali d’allevamento, quanto per quelli d’affezione), deve assolutamente esplicitare il motivo per cui lo usa e indicare, eventualmente, la natura profilattica del trattamento».

Passi avanti in zootecnia

I dati mostrano che, pur essendo all’avanguardia rispetto al resto del mondo perché inserita nel contesto di tutela e regolamentazione europeo, l’Italia è ancora molto indietro per quanto riguarda la riduzione dell’uso degli antibiotici e la lotta alla diffusione della resistenza antimicrobica. «Siamo tra i peggiori in Europa sia per la quantità di antibiotici utilizzati, sia, conseguentemente, per la diffusione dei fenomeni di antibiotico-resistenza: d’altronde, le due questioni sono fortemente correlate», precisa Antonia Ricci. «Ma l’Italia è indietro nel ricorso agli antibiotici non solo in zootecnia, ma anche in medicina umana. Entrambi i settori contribuiscono in modo importante a questo fenomeno. Bisogna però riconoscere che, in questi anni, abbiamo fatto grandissimi passi avanti verso una diminuzione dell’uso degli antibiotici: questa tendenza è emersa con particolare evidenza negli allevamenti avicoli, settore nel quale l’uso degli antibiotici è stato ridotto addirittura dell’80%. Questo caso dimostra che attuando delle serie politiche di riduzione dell’uso di questi farmaci, è possibile ottenere buoni risultati: potrebbe essere un esempio da seguire anche negli altri settori zootecnici», suggerisce Ricci.

Anche Evelina Tacconelli sottolinea le difficoltà riscontrate in Italia nel limitare il ricorso agli antibiotici: «Prima di arrivare ad affrontare la politica dell’utilizzo degli antibiotici negli animali e nell’ambiente, nel nostro Paese c’è una quantità di lavoro impressionante da fare nel settore della medicina umana. La classe veterinaria ha ottenuto miglioramenti che la classe medica umana non ha ancora raggiunto. Il Piano nazionale di contrasto all’antibiotico-resistenza (2017-2020) ha stabilito dei target sia per l’utilizzo degli antibiotici nell’uomo, negli ospedali e in comunità, sia nel settore veterinario. Ebbene, i veterinari hanno raggiunto tutti gli obiettivi previsti, la medicina umana invece nemmeno uno. Il lavoro dei veterinari sta migliorando a livello europeo in maniera significativa e l’Italia si distingue in questo campo: l’uso di antibiotici nel comparto animale sta diminuendo». Oggi, in Italia, il comparto veterinario e zootecnico incide in misura sempre minore sull’antibiotico-resistenza, e i problemi maggiori derivano da fattori di altro tipo, come il corretto utilizzo degli antibiotici nella medicina umana, il lavaggio delle mani in ambienti ospedalieri, l’impatto delle case farmaceutiche, l’assenza di linee guida. «Il nostro Paese è in una situazione veramente drammatica – afferma ancora Tacconelli – ma la priorità non è investire in ambito veterinario, dove già si sta facendo un ottimo lavoro. Se il medico di medicina generale prescrivesse gli antibiotici in modo corretto e in ospedale il lavaggio delle mani diventasse una consuetudine tutte le volte che si tocca un paziente, il problema della resistenza antibiotica in Italia verrebbe risolto in un paio d’anni».

Salute globale

La questione, tuttavia, mette a rischio la salute pubblica a livello globale. Uno dei motivi principali è che fuori dai confini europei la regolamentazione dell’uso di farmaci antibiotici in zootecnia è molto meno stringente. Ma nel diffondersi, i batteri antibiotico-resistenti non rispettano i confini territoriali degli Stati nazionali: è dunque essenziale riconoscere la natura planetaria del problema ed elaborare soluzioni altrettanto globali. «Questo è un tema davvero cruciale», sottolinea Antonia Ricci. «Una lezione che abbiamo tratto, nostro malgrado, dalla recente pandemia è quanto un fenomeno locale possa avere ripercussioni in ogni parte del mondo, anche se l’evento originario è molto lontano da noi. Tutto questo è conseguenza della globalizzazione: ogni giorno, il traffico internazionale di animali e merci è amplissimo, e questo fa sì che un fenomeno (o un batterio resistente) originatosi in Cambogia o in Sud America possa arrivare in Europa in pochissimo tempo. Da questo punto di vista, l’Europa è molto all’avanguardia: le nostre politiche di tutela della salute pubblica sono molto restrittive e hanno abbracciato da tempo l’approccio One Health. Purtroppo, tuttavia, non è così in tutti i paesi del mondo. Ad esempio, in molti paesi in via di sviluppo si ricorre ancora agli antibiotici per incrementare la produttività, senza guardare al danno che questo produce».

«Anche a livello internazionale, tuttavia, si sta andando nella giusta direzione: ad esempio, tutte le politiche delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile includono l’obiettivo di riduzione dell’uso di antibiotici in un’ottica farm to fork (“dal campo alla tavola”)».

In ultimo, è importante ricordare che i potenziali effetti negativi della riduzione degli antibiotici in zootecnia possono essere mitigati. Esistono infatti numerose misure alternative, che possono contribuire a mantenere alta la produttività e a tutelare la salute degli animali: «Ne sono un esempio lampante le vaccinazioni – afferma la direttrice dell’IZS – che rappresentano un’importante arma di prevenzione delle malattie. Anche l’Istituto Zooprofilattico delle Venezie è impegnato nella produzione di vaccini elaborati ad hoc per specifici patogeni: sappiamo, infatti, che prevenendo l'insorgenza della malattia il ricorso agli antibiotici può essere evitato, con un vantaggio tanto per le tasche degli allevatori, quanto per la salute di tutti».


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