SOCIETÀ

Google, il miraggio di ogni colletto bianco

Puntuali, anno dopo anno, escono le liste delle migliori aziende per cui lavorare. In un momento in cui ci si dice fortunati anche solo di averlo, un lavoro, scorrendo le classifiche come quella su Fortune, si prova a immaginare la propria vita d’impiegato in luoghi googliani: fare pausa pranzo (e cena, merenda, caffè e spuntino) gratuitamente in uno dei bar della compagnia, intervallando le ore alla scrivania con un salto dal parrucchiere (gratuito) o una lezione di pilates nella palestra aziendale, una doccia aziendale e una mezz’oretta di relax nella sala amache aziendale. 

Se Google è il miraggio di ogni impiegato, e Great Place to Work ne conferma per l’ennesima volta la posizione leader nelle classifiche mondiali, la realtà nella grande maggioranza delle aziende è ben lontana dagli scenari idilliaci dei luoghi di lavoro al vertice delle hit list mondiali (ma anche nazionali). A  riportarci alla cruda realtà, oltre all’evidenza quotidiana, è una ricerca eseguita fra il 2011 e il 2012 dalla compagnia statunitense Gallup su di un enorme campione di più di 25.000 impiegati in 142 paesi  di tutto il mondo. I risultati sono ancor più scoraggianti di quanto possa apparire: a livello mondiale, solo il 13% degli impiegati si può definire impegnato (engaged) nel proprio lavoro; la percentuale rimanente si divide fra una buona dose di non impegnati  (not engaged, il 63%) – che sono in sostanza gli “scalda poltrona” del tutto disinteressati alla propria attività e lontani dal dedicarvi energia o passione – e di disimpegnati attivi (actively disengaged, il 24%): questi ultimi non si limitano a essere insoddisfatti del proprio impiego, ma cercano anche di esternare in ogni modo la propria infelicità lavorativa, fiaccando anche il morale dei colleghi e la produttività dell’azienda. Mediamente i rappresentanti di questo gruppo sono circa il doppio di coloro che sul luogo di lavoro invece si danno da fare. 

Secondo la ricerca di Gallup, più che gli “scaldapoltrone”, sono proprio gli impiegati actively disengaged il vero buco nero delle finanze aziendali. “Il disimpegno attivo  è un enorme salasso per le economie mondiali”, afferma lo studio, che calcola per gli Stati Uniti una perdita imputabile a questa categoria pari a circa 500 miliardi di dollari, miliardo più, miliardo meno; sono fra i 151 miliardi e i 186 miliardi di dollari persi in Germania, e attorno ai 100 miliardi in Gran Bretagna.

Al di là delle percentuali medie nella ripartizione fra i vari tipi di impiegati, a livello locale si riscontrano, com’è ovvio aspettarsi, sostanziali differenze. Gli impiegati meno impegnati e motivati al mondo risultano quelli del Sudest asiatico, Cina in prima in fila, mentre i più zelanti lavorano in Oceania e, a sorpresa, in Qatar, dove svetta un 28% di impiegati felici. La mina vagante dei disimpegnati attivi registra numeri consistenti soprattutto in Medioriente e in Nordafrica, anche a causa di un tasso di disoccupazione molto elevato che di frequente costringe i lavoratori insoddisfatti a rimanere comunque ancorati al proprio impiego. È in misura minore, ma comunque rilevante, ciò che accade in parte dell’Europa centrale, soprattutto in Italia, Irlanda e Spagna.

Risalta la correlazione fra livello d’istruzione e di impegno lavorativo, testimoniando risultati opposti in paesi con situazioni economiche di tipo differente. In molte aree in via di sviluppo o in fase di transizione economica, infatti, dove la domanda di lavoratori qualificati supera l’offerta, le persone con i titoli di studio più elevati possono accedere a impieghi rispondenti alle proprie attese: questo gruppo di impiegati, per i quali il riconoscimento delle proprie doti è evidente, sarà più facilmente impegnato e coinvolto nella politica aziendale. Questa situazione non è però estensibile a molti paesi a economia avanzata, come gli Stati Uniti e il Canada, ma anche l’Italia, dove la curva dell’impegno in campo lavorativo cala all’innalzarsi del grado di istruzione: si ingrossano le file nell’esercito dei sotto-qualificati, gli impiegati infelici per eccellenza.

Il circolo virtuoso impegno-felicità-produttività viene quantificato e provato attraverso l’analisi dei guadagni di aziende con ratio diverse di impiegati impegnati e attivamente disimpegnati. Il rapporto fra felicità e produttività vien studiato anche all’università di Warwick (Andrew Osvald, Eugenio Proto, Daniel Sgroi, 2014), fino a dimostrare che “la felicità rende le persone più produttive” e che “se il benessere aumenta la performance lavorativa, aumentano anche le possibilità che questo accada a livello microeconomico e forse anche macroeconomico”. Dunque, se chiediamo una sala amache anche per il nostro ufficio, in fondo tutto va a beneficio della nostra azienda.

Chiara Mezzalira

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