SOCIETÀ

Hannah Arendt, la responsabilità del pensiero

Arriva sugli schermi italiani in occasione della giornata della memoria, e per soli due giorni (27 e 28 gennaio) il film dedicato a Hannah Arendt da Margarethe von Trotta, la regista de Gli anni di piombo, Rosenstrasse e Visioni. Uscito da più di un anno in Germania e negli Stati Uniti, Hannah Arendt finora era stato presentato al pubblico italiano soltanto in alcune anteprime, senza raggiungere il circuito cinematografico. Un peccato, a giudicare dal successo di critica e di pubblico negli altri paesi. In alcuni casi sorprendente, come in Giappone dove la critica l'ha giudicato il film straniero più importante del 2013; o in Israele, dove la pellicola ha ricevuto finanziamenti e ha rappresentato la simbolica "riconciliazione" con la pensatrice ebrea tedesca, dopo le durissime polemiche sorte attorno alla pubblicazione di La banalità del male nel 1963.

E proprio sugli anni del processo Eichmann (l'ex gerarca nazista, fra i maggiori responsabili della Soluzione finale, rapito in Argentina e portato in Israele per essere processato nel 1961), sulla proposta di Hannah Arendt al New Yorker di seguire il suo svolgimento, sullo scontro frontale che si aprì fra lei e larga parte della comunità ebraica (e non solo) appena cominciò a delinearsi l'interpretazione che ne dava, è incentrato il film. Che fa di quella vicenda la "lente" attraverso la quale restituire la figura della Arendt e il significato del suo pensiero.

Al di là degli elementi più immediatamente visibili, a costituire il "respiro" del film è l'alternanza fra i momenti di riflessione – con la protagonista in silenzio, avvolta come la vera Arendt nel fumo delle sue onnipresenti sigarette – e i dialoghi serrati, su molti registri diversi, che mostrano l'evolversi del suo pensiero nel confronto con la realtà del processo. E nello scontro, presto inevitabile, con molti dei suoi amici più prossimi.

Rifuggendo per quanto possibile dalla ricerca del coinvolgimento emotivo, von Trotta mette "sul tavolo", a disposizione dello spettatore, gli elementi della situazione e della riflessione che porteranno la Arendt a maturare il suo giudizio sul processo ad Adolf Eichmann, poi riassunto nella secca formulazione della "banalità del male". La tecnica, che risente della lezione di Brecht, punta a stimolare nello spettatore l'analisi della situazione e lo sviluppo di un giudizio distaccato, a partire dai "fatti" e dalle conclusioni che se ne possono trarre indagandoli.

Proprio questo aspetto brechtiano, che non sarebbe affatto dispiaciuto a Hannah Arendt stessa, costituisce una possibile chiave interpretativa del film, tutto giocato sul confronto fra la Arendt e Eichmann, fra capacità di pensare come responsabilità da un lato e incapacità di pensare, ovvero di formulare giudizi morali sul proprio operato, dall'altro. Non è infatti affidato soltanto all'esposizione del dialogo il contenuto propriamente filosofico del film.

Quello che la regista vuole restituire è un pensare molto specifico e particolare, il cui punto di partenza è proprio la responsabilità: perché "gli uomini, non l'uomo abitano il mondo" (come la filosofa scrive in Vita Activa) e ogni azione e parola acquistano senso e valore soltanto nel mondo comune, nello spazio pubblico in cui tutti si incontrano. Pensiero, allora, come capacità di estraniarci da noi stessi, di guardarci dall'esterno, senza sconti, e giudicare correttamente la portata delle nostre azioni, in un continuo dialogo in cui l'io si sdoppia. Esattamente ciò che ad Eichmann – che si difendeva invocando l'obbedienza, la sua "non competenza" a giudicare quanto gli veniva ordinato dai superiori – era mancato. Una mancanza che diventava l’origine stessa dei suoi crimini. Eichmann pensa da solo, al di là di un’assunzione di responsabilità, delegando però il giudizio alla collettività. Diventa incapace di vedere l'abiezione morale delle sue azioni: in questo senso "non capace di pensiero" – per quanto dal punto di vista pratico sia dotato di “talento” e capacità d'iniziativa, e non mero esecutore.

Si giocano proprio sull’opposizione tra pensare e giudicare, da soli o insieme, anche le scelte dei protagonisti della vicenda Arendt, nel film e nella realtà. Come Kurt Blumenfeld, l'amico e organizzatore delle reti di solidarietà sioniste, che pensa assieme e giudica assieme, senza astrarsi dal legame con la neonata collettività di Israele, arrivando ad accusare la Arendt di essere incapace di amare il suo popolo. E come il suo antico maestro Martin Heidegger, che pensa da solo e delega il giudizio, rimanendo così "cieco, come un bambino sperduto nella foresta": incapace di vedere il significato delle sue azioni, fino a ritrovarsi dalla parte del male. E così Hans Jonas, l'amico e compagno di studi che la ripudia nella conclusione del film. Dall’altra parte, a unire il pensare comune con la rigorosa e solitaria assunzione di responsabilità nel giudizio, restano invece, assieme a lei, Heinrich Blücher, il marito – tedesco, ex spartakista e resistente – e l'altro suo maestro, Karl Jaspers.

Una serie di posizioni, e di possibilità, a muovere le quali troviamo dunque alcune delle categorie fondamentali del pensiero di Hannah Arendt, che andava precisandosi proprio in quegli anni. Un pensiero la cui resa anche in questo secondo livello di lettura, più a fondo dei dialoghi, è forse la scommessa più ambiziosa di Margarethe von Trotta.

Michele Ravagnolo

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