UNIVERSITÀ E SCUOLA

I dottorati e l'ideologia del "fabbisogno"

Con la consueta intelligenza, e in modo per fortuna tutt’altro che paludato, Claudio Giunta, nell’articolo già commentato qui da Francesca Ghedini, richiama l’attenzione su quella che sarà una delle questioni nodali per l’università nei prossimi anni, e cioè quella dei dottorati di ricerca. 

Se infatti i corsi di studio hanno subìto negli ultimi anni una talora persino difficilmente sopportabile pressione riformatrice che ha messo non di rado in seria difficoltà sia docenti che studenti, così non è stato per i dottorati. Quello che oggi viene chiamato il terzo livello della formazione, pur essendo stato oggetto di operazioni a volte anche decisamente invasive, è però di fatto nella sua struttura di fondo per molti versi ancora  in linea con un modello formativo che aveva una sua qualche coerenza con il vecchio ordinamento e che evidentemente vacilla con la nuova organizzazione degli studi universitari. 

In realtà da molti anni si discute di una riforma radicale dei dottorati di ricerca, ma si ha come l’impressione che si intervenga su di essi con provvedimenti più o meno settoriali o sistematici (l’ultimo, più significativo, è sicuramente il processo di accreditamento proposto dall’Anvur, che sotto forma di provvedimento “tecnico” è destinato in realtà a modificare la sostanza delle scuole di dottorato) senza tuttavia che si sappia verso quale modello di formazione dottorale si vuole andare. O, perlomeno, senza che la politica, da una parte, e le comunità scientifiche, dall’altra, si siano davvero e con schiettezza interrogate e confrontate seriamente su ‘dove si vuole portare’ quello che è destinato a diventare sempre più un livello decisivo e strategico: quello, appunto, dei dottorati di ricerca. 

Da questo punto di vista, l’intervento di Giunta, al quale tutto si può imputare, ma non certo la mancanza di schiettezza, è salutare ed è davvero da augurarsi che consenta l’apertura di un dibattito serio, radicale, che non dia nulla per scontato e che non sia retto semplicemente, come spesso accade quando si parla di politiche della ricerca e dell’università, dal bisogno di difendere rendite di posizione acquisite.

Tra i diversi punti che Giunta tocca mi vorrei qui soffermare su due in particolare: il primo riguarda la giustificazione dei dottorati in area umanistica, il secondo le modalità organizzative che dovrebbero a mio parere caratterizzare i dottorati, e quelli di area umanistica in primo luogo.

In relazione al primo punto, il fermo intendimento di Giunta di tenersi alla larga da una retorica penosamente aristocratica - che sembra far dipendere dalla cura nei confronti delle discipline umanistiche i destini delle nostre vite e delle nostre società - rischia di farlo adagiare all’interno di una retorica certo molto più accettata e rassicurante nel discorso pubblico, ma non per questo meno ideologica.  Quella che vorrebbe commisurare il numero dei dottori di ricerca a quello che egli chiama, “per quanto la formula possa suonare irritante”, fabbisogno. Una retorica pericolosa, a mio parere, tanto quanto l’altra e ad essa specularmente opposta. Anzi, la mia impressione è che le due retoriche, nel loro opporsi, si sostengano in realtà una sui limiti dell’altra. 

Cosa significa infatti, dire, come sostiene Giunta, che i dottorati di area umanistica dovrebbero essere pochi, e soprattutto “commisurati al fabbisogno”? Se si vuole essere schietti fino in fondo, si deve allora dire che non c’è nessun reale fabbisogno di dottorati di area umanistica, se non eventualmente – restando dentro questa logica – per una caritatevole concessione da parte delle discipline rispetto alle quali il fabbisogno è invece ben determinato e reclamato dalle esigenze del mercato (il quale, ovviamente, ha poi tutto il diritto di dire il giorno dopo che si era sbagliato, che intendeva altro o anche di non dire niente e semplicemente infischiarsene). Se si entra in una logica del genere (una logica che forse una seria impostazione umanistica può aiutare perlomeno a discutere, a rivelare, appunto, come ideologica, a mostrare come carica di presupposti niente affatto giustificati e riconosciuti come tali) dire 100 o dire 0 è lo stesso. Perché non ha senso parlare seriamente di fabbisogno rispetto ai dottorati di area umanistica. A questo punto si potrebbe limitare i corsi di laurea umanistici a corsi di formazione per futuri insegnanti, selezionando poi i più bravi fra questi per immetterli nella ricerca. Un criterio economicistico troverebbe piena soddisfazione in un ragionamento di questo tipo. Dal che poi è evidente che deriverebbe una domanda relativa al perché mai si debba studiare qualcosa come la letteratura nelle scuole. In fondo non c’è gran “fabbisogno” di entrare nel mondo di Giotto o di Palladio, in quello di Ariosto o di Leopardi, in quello di Joyce o di Wittgenstein. 

La parola magica su cui si regge nella retorica oggi vincente e mainstream qualsiasi discorso relativo alla formazione scolastica e universitaria è competenza.  La scuola e l’università sono chiamate a formare soggetti competenti, soggetti cioè in grado di fare. E di fare cosa? Di fare ciò di cui c’è bisogno. E siccome c’è bisogno anche di parlare e di scrivere (e magari talvolta di fare anche qualche citazione elegante, ché la cosa fa sempre il suo bell’effetto) si è disposti a riconoscere uno spazio adeguato per la formazione di queste competenze alle discipline umanistiche.

Io credo che se si accetta davvero una logica di questo tipo, si sia già preclusa fin dall’inizio qualsiasi possibilità di giustificare la rilevanza di una formazione in ambito umanistico. E dicendo questo non intendo affatto sostenere che la formazione umanistica debba “romanticamente” prescindere da un discorso sulle competenze. Anzi, trovo essenziale che ci si interroghi e si lavori su questo aspetto. Solo che non penso si possa basare sull'acquisizione di competenze la giustificazione delle discipline umanistiche, la rilevanza o meno di una formazione umanistica. 

Faccio un esempio, nel tentativo di spiegarmi e cercando di indicare anche un possibile percorso di valorizzazione dei dottorati di area umanistica. Io credo che un dottore di ricerca in filosofia che si è ad esempio specializzato su alcuni problemi relativi alla Critica della ragion pura di Kant, lavorando magari sulle differenze fra la prima e la seconda edizione, sia una persona che per quanto possa apparire inutile in termini di “fabbisogno”, possieda in realtà, se ha lavorato bene, delle competenze straordinarie. Come, per esempio riuscire a maneggiare una architettura argomentativa di grandissima complessità, vederne le fluttuazioni e gli spostamenti, riconoscerne le debolezze e i punti di forza, evidenziarne le movenze persino inconsce o di cui l’autore faticava a rendersi conto, essendo egli situato dentro a dei presupposti connessi all’epoca e alle circostanze nelle quali stava pensando ed elaborando le sue idee.

Ebbene io credo che competenze di questo tipo possano essere fondamentali in relazione alla capacità di “maneggiare” la complessità; capacità che dovrebbe essere una sorta di prerequisito per chi si trova ad agire all’interno di sistemi caratterizzati da così tante variabili come sono, per esempio, i sistemi dell’amministrazione pubblica. E non capisco davvero perché uno stato che forma personale di questo tipo non lo richieda poi all’interno delle proprie strutture. 

Detto questo, non credo però che sia importante studiare Kant e la Critica della ragion pura perché così in un mondo forse ben costruito (e tutto sommato in giro ce ne sono) si potrebbe essere accolti nell’alveo della pubblica amministrazione (la quale continua peraltro - da noi - a guardarsene bene). Le competenze sono per così dire un effetto collaterale dello studio di Kant. Un effetto che chi ha responsabilità formative – i docenti universitari e quelli della scuola – è chiamato a valorizzare, a esplicitare, a raffinare. Ma che non può, da solo, costituire ciò che giustifica lo studio di Kant, di Dante, di Thomas Mann o della guerra dei trent’anni. Quale allora la caratteristica propria delle discipline umanistiche, quella che ne giustifica lo studio e contraddistingue specificamente la ricerca e le particolari capacità di analisi di cui abbisogna e che richiede di sviluppare, in questo campo? (1/continua)

Luca Illetterati 

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