UNIVERSITÀ E SCUOLA

I dottorati e l'ideologia del "fabbisogno" /2

Ciò che caratterizza le discipline umanistiche, ciò che le rende terribilmente complicate oltre che straordinariamente affascinanti è proprio la necessità che esse implicano di doversi sempre giustificare: il loro non trovare, cioè, la propria giustificazione in un “fabbisogno” esterno da tutti accolto come ovvio e sensato. Non è fuori da se stesse che le discipline umanistiche trovano la loro necessità. E dire questo non significa affatto dire che ne siano prive: le scienze umane implicano una necessità diversa, magari più complicata; una necessità che sono continuamente chiamate a indagare ed esplicitare. Devono. E se non lo fanno – per supponenza, o per acquiescenza verso la logica del fabbisogno – sono destinate a trovare il loro posto nell’alveo dell’ornamentale, di ciò che rende magari elegante e persino accogliente un discorso, il quale si regge, però, del tutto indipendentemente. 

Questo significa dunque che le cose così come sono adesso nell’organizzazione dei dottorati di area umanistica vanno bene? No di certo, e proverò a dire subito in che direzione si potrebbe, secondo me, agire. Non prima però di aver detto, con la stessa schiettezza che caratterizza l’intervento di Giunta, che spesso - per l’esperienza che ne ho avuto anche in relazione alla mia attività all’interno del nucleo di valutazione dell’università di Padova - i dottorati di area umanistica sono più strutturati e più organizzati di alcuni dottorati delle aree scientifiche, tecnologiche o sanitarie. E credo che questo dipenda proprio dal fatto che nelle aree umanistiche non si risponde a un “fabbisogno”, quanto piuttosto a esigenze che sono, verrebbe da dire giocoforza, tutte interne alla ricerca. È in altre aree che spesso – e lo dico senza generalizzare e senza peraltro considerare la cosa di per sé scandalosa – i dottorati sono connessi ad attività esterne che in qualche modo ne “inficiano” proprio il carattere di ricerca, e che rendono gli esiti finali di questo percorso di ricerca spesso meno consistenti e significativi in termini qualitativi degli esiti dei dottorati in area umanistica.

Veniamo allora al da farsi, considerando le diverse ipotesi possibili. L’idea di Giunta, mi sembra, è quella di proporre dei consorzi che consentano una razionalizzazione delle risorse. Può essere che questa sia una strada possibile da percorrere. In realtà, però, quello che temo è che con i consorzi, dovendo poi le scuole ospitare al proprio interno tante e diverse tradizioni e stili di ricerca, i dottorati rischino uno scioglimento all’interno di una soluzione inodore e insapore, priva di qualunque identità. 

Ritengo perciò che il primo passo che si dovrebbe fare nei dottorati umanistici (questo sì un aspetto che si può imparare dai dottorati scientifici) dovrebbe piuttosto essere quello di esplicitare nel modo più chiaro possibile le linee di ricerca che si intendono percorrere e che caratterizzano una determinata sede, una determinata scuola. Linee che possono ovviamente cambiare nel corso degli anni a seconda delle ricerche che si vanno svolgendo nei dipartimenti di riferimento. Troppo spesso si ritiene, come scrive anche Giunta, che il dottorato sia un periodo nel quale si ha semplicemente la possibilità di studiare, e spesso di continuare a studiare ciò su cui si è studiato per la laurea. Credo che questo modello, in cui il dottorato è vissuto semplicemente come un prolungamento dello studio per coloro che vengono ritenuti i più bravi, oggi non funzioni più e debba essere radicalmente ripensato. 

Lavorare all’interno di una scuola di dottorato deve essere sempre più partecipare a un’impresa di ricerca che è anche di gruppo; dovrebbe significare, io credo, la possibilità di essere inseriti all’interno di programmi di ricerca definiti, in base ai quali si viene selezionati e dentro i quali si è poi chiamati a svolgere la propria ricerca. Solo sulla base di questa chiarificazione (e le linee di ricerca non possono essere ovviamente: ‘letteratura italiana’, ‘epistemologia’, ‘arte del medioevo’) un giovane potrà concorrere là dove i suoi interessi, i suoi studi e le sue competenze – qui la parola ha tutto il suo senso - potranno essere effettivamente riconosciuti e valorizzati. Credo che questa strada sia peraltro la condizione per uscire senza meccanismi balordi e paradossali, come spesso accade in Italia, dai localismi. Perché questo è l’altro problema che devono affrontare i dottorati di ricerca (tutti, umanistici e non): un dottorato di ricerca che seleziona solo candidati provenienti dai corsi di studio del proprio Ateneo rischia di diventare un circolo incestuoso piuttosto che un luogo nel quale si perseguono serie finalità di ricerca.

Infine, proprio l’esplicitazione e la chiarificazione delle linee e dei programmi di ricerca potrebbe essere la precondizione attorno alla quale pensare, coerentemente con il discorso proposto da Giunta, forme di consorzio tra dottorati di sedi diversi.

Le politiche dei consorzi, infatti, troppo spesso hanno risposto solo a un fabbisogno di razionalizzazione economica fondato su istanze di carattere perlopiù geografico. E non sempre questi fabbisogni – su questo converrà anche Giunta – corrispondono necessariamente ai fabbisogni della ricerca.

Luca Illetterati (2/fine)

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