CULTURA
Il bambino indaco. Storia di una maternità malata
Quella dei “bambini indaco” è una teoria pseudoscientifica che si è fatta largo nell’ambito del pensiero new age, secondo cui esisterebbero dei bambini, caratterizzati da un’aura color indaco, che si possono definire davvero “molto speciali”. Alcuni sostengono che abbiano semplicemente spiccate doti caratteriali come empatia e intelligenza emotiva molto sviluppate, ma secondo altri sarebbero addirittura dotati di poteri paranormali e arriverebbero persino a vedere gli angeli. Secondo alcuni scienziati questa convinzione ha preso piede come un tentativo di opporsi alle molteplici diagnosi di sindrome da deficit di attenzione e dal conseguente uso e abuso del Ritalin, un farmaco al centro di varie polemiche mediche, prima in America e poi nel resto del mondo: i genitori preferirebbero pensare che il proprio bambino abbia poteri speciali piuttosto che vederlo come vittima di un disturbo psicologico.
Da queste teorie prende spunto “Il bambino indaco” di Marco Franzoso (Einaudi 2012). Il libro si apre sulla scena di un dramma: Isabel, la moglie di Carlo, è morta e Pietro, il loro bambino, è salvo.
E parte il flashback, che li vede prima fidanzati, poi conviventi e infine genitori. Si erano incontrati a un appuntamento al buio, orchestrato dalla classica amica che li reputava perfetti insieme, e il buio diventa il filo conduttore della loro storia, perché Isabel con la gravidanza cade in un baratro ossessivo: una chiropratica la convince che il suo bambino sarà speciale, perché è un bambino indaco, e quindi lei ha il compito di preservarne la purezza. Questo vuol dire, tra le altre cose, una dieta ferrea, sia per lei che per Pietro. Il cadavere di Isabel pesa 38 kg. Non è anoressica, tecnicamente è ortoressica: ha un’ossessione per le regole alimentari e pensa che ogni cibo solido possa attentare alla purezza sua e di suo figlio. A nulla valgono i tentativi di farla ragionare, e alla fine Carlo decide di rapire il suo stesso figlio per sottrarlo al controllo della madre malata. E qui si scontra con l’incapacità di istituzioni che dovrebbero difendere i deboli e invece non riescono a farsi carico della complessità del reale, difficilmente incasellabile nelle ferree strutture che un regolamento richiede. La situazione si trascina così fino alle estreme conseguenze da cui il romanzo aveva preso avvio.
”Il bambino indaco” mette in campo moltissime questioni che è impossibile indagare in un’ora. C’è il rifiuto del cibo che è visto come un veleno e si ricollega al rifiuto del mondo esterno, inconsciamente colto come altrettanto pericoloso per il bisogno di purificazione che tormenta Isabel; ma tutto ciò rimanda anche al rifiuto della maternità, più volte argomento delle interviste svolte dall’autore, che da molti anni voleva scrivere questo libro: “Scriverlo è stato molto facile” dice. “Il difficile, più che altro, è stato iniziarlo”.
L’idea da cui Franzoso è partito è quella di un romanzo di formazione in cui la personalità del protagonista si sviluppa attraverso l’amore. L’amore per la compagna, prima, e quello per un figlio in pericolo poi. Carlo nel libro non ha gli strumenti per affrontare la prova che la vita gli ha messo davanti e si chiede più volte se mutando un dettaglio o una parola avrebbe potuto evitare che la situazione precipitasse. È un adulto rimasto adolescente: cerca aiuto nelle istituzioni e rimane annichilito dalla loro incapacità di tutelare i più deboli. I nemici perdono i loro volti: in breve, non sta più lottando contro una moglie malata, ma contro un’istituzione che non riesce a rendersi conto che c’è un bambino che soffre, che non riesce più a camminare, che subisce una vertiginosa involuzione perché nessuno è in grado di aiutarlo, nemmeno il suo stesso padre che finisce per chiedere tacitamente aiuto a sua madre, la nonna del piccolo Pietro.
Alla fine Marco Franzoso spende due parole sul finale del libro, che porta un messaggio di speranza, pur nell’ambivalenza della tragicità: è il bambino che si è salvato che prende per mano il padre, che si prende cura di lui; Carlo ha capito che a volte bisogna accettare i propri limiti, e non è importante sapere se l’adulto è cresciuto davvero, l’unica cosa che conta è quel bambino e la sua mano che lo stringe, perché quel bambino è sopravvissuto nonostante tutto e perché quel bambino è suo figlio.
Anna Cortelazzo