Certe volte i romanzi sono capaci di riportarci alla mente che bastano una manciata di decadi e qualche centinaio di chilometri perché il mondo ci appaia funzionare secondo regole antitetiche all’oggi e al qui, per ricordarci che veniamo da un altrove vicino ma profondamente distante e che il tempo di una vita è lungo abbastanza da ribaltare prospettive intere.
Fa questo Il fiore delle illusioni di Giuseppe Catozzella, uscito per Feltrinelli da qualche giorno, un romanzo, a detta dello stesso scrittore, incentrato sul sogno e sulla fatica di mantenerlo vivo.
Racconta di Francesco, un ragazzo del Sud trapiantato con la famiglia a Milano, che cresce lontano da quel cugino, Luciano, più grande di lui e che però aveva avuto sempre come pietra di paragone, nonostante Luciano fosse tacciato dal paese intero di essere un “affascìno”: “faceva il malocchio, almeno così dicevano” e “il soprannome gli si era cucito addosso e non si staccava più”.
Ecco già la prima distanza. Quella del mondo della magia che non va detta, delle rimedianti, le guaritrici di una volta che contavano i pizzichi di sale, facevano raccogliere il sangue e conservare un capello strappato e che talvolta aiutavano arrischiatamente le ragazze a liberarsi di una gravidanza impossibile. Catozzella aveva una nonna che faceva questo mestiere così come, nel romanzo, lo fa la nonna di Francesco. Anche un altro scrittore italiano ha di recente messo sulla pagina il fascino della “strigossa”, come la chiama Malaguti che ambienta la storia nel Polesine. Eppure ci sembra che tutto questo non esista più e che mai possa essere esistito.
Francesco, una volta al Nord, riempie i vuoti di una vita giovane che deve trovare nuovi orizzonti coltivando un sogno. Dopo aver letto Lo straniero che gli aveva messo in mano il padre pensa: “Anch’io avrei voluto scrivere così, con quella spietatezza, usare le parole per tagliare il mondo in due. Perché non riuscivo a fare di me stesso qualcosa di vivo?”.
Forse perché quella seconda distanza, segnata dai chilometri, si fa male di vivere. E poco importa che giù, col cugino, quando ci torna d’estate, vada tutto storto. “Il malocchio, il fascìno, quel mondo incantato era tutto quello che desideravo, pur con i suoi artigli, le sue ferocie: erano ferocie di natura, non di uomini”.
E poi c'è la terza: Francesco vuole scrivere. Però il padre, che fino alle ore piccole insieme alla moglie s’attarda a leggere con gli abat-jour accesi (Uomini e topi, Furore, Il lamento di Portnoy, Uccelli di rovo, Cristo si è fermato a Eboli) lo mette in guardia: “Stai attento ai libri. […] Quello che ti danno dentro ti tolgono fuori. E si riferiva – principalmente – ai soldi”.
“ Stai attento ai libri. Quello che ti danno dentro ti tolgono fuori Giuseppe Catozzella
Così, in questo romanzo di formazione di un ragazzo (anzi di due) e di un Paese intero – il nostro, che nelle ultime decadi del Novecento ha visto sconvolgimenti tremebondi come guerre intestine che hanno costretto gli Italiani a domandarsi chi fossero e da che parte stessero – Francesco inizia a cercare. “Solamente la vita contava, solamente quella”.
E Luciano, l’affascìno, che non teme le dicerie, “creava le cose dal niente, come per la masseria, che si era messo in testa di far diventare la più importante azienda agricola della provincia, e in un anno era raddoppiata” invece Francesco legge Montale che “spremeva la verità dalla realtà”, Walt Whitman di “credo in te anima mia”, Zanzotto per cui “tutto è perduto/ morto e insorgente” e studia lettere grazie forse a una buona parola che ha messo con il padre l'amico Gregorio Inerme, un politico che “sognava di cambiare l’Italia” ma non c’è riuscito. Infine Francesco scrive. “Di botte subite, di vergogna, di ragazzini abbracciati in una grotta polverosa. Di voglia di donne mature. […] Era come toccare il fondo, rovistare in angoli nascosti”. Prova “uno strano piacere, come dopo aver svuotato una cantina”. E s’innamora. Di una ragazza in “minigonna di jeans e sandaletti di cuoio” che, come lui, parla le parole dell’anima ma viene dall’Australia e in Australia vuole ritornare.
L’Italia corre, la mafia agisce, Luciano scalpita, nessuno aspetta, l’ingenuità è un peccato mortale. Francesco non si arrende, tenta la strada dell’editoria, non si sfa scoraggiare dalle porte chiuse in faccia, dalle promesse non mantenute. Perde l’amore. Coltiva il sogno: poco importa che si concretizzi quel “decadimento del mistero, che si smarriva di generazione in generazione”, che Silone avesse ragione e che “l’unica regola, lì, [fosse] la guerra di tutti contro tutti” che “ciò che conta [fosse] solo l’affiliazione”, Francesco scrive “l’assalto al futuro”.
Ma chi vinceva? Si chiede. La poesia o la guerra?
Tutto precipita, le illusioni svaniscono come l’estate che vira in autunno. Ma l’eternità è un’altra cosa. “Non è costruire una cosa affinché duri, ma continuare a farla”.
Nella parabola di un ragazzo che apre gli occhi, che tocca il mondo assassino, derubato da chi ama, Catozzella insuffla la speranza. Il fiore delle illusioni. Il più bello. Il più poetico. L’immortale, come la letteratura.
“ L'eternità non è costruire una cosa affinché duri, ma continuare a farla Giuseppe Catozzella