CULTURA

Sullo scaffale: Lo sbilico di Alcide Pierantozzi

“La verità delle cose non sta in alto”.

Sono parole che Alcide Pierantozzi, classe 1985 e fuoriclasse della scrittura, verga quasi alla fine del suo libro sconvolgente, Lo sbilico (Einaudi, 2025), che sta facendo parlare (e pensare) “la bolla” editoriale e i lettori tutti, perché non può lasciare indifferenti.

Inizia con un’ammissione senza scampo: “Sono Alcide Pierantozzi e sono un paziente vigile, collaborativo, dall’eloquio fluido”. Affida alle parole mediche dei referti che lo descrivono il primo tentativo, da cui prende le distanze, di trovare forma alla sua ontologia, che, di fatto, è quella di qualcuno dalla “condizione incerta”, così dice nelle prime pagine.

Qual quindi è la verità – che non sta in alto – di chi sente di non dominare del tutto la propria mente ma, di contro, ha un’incredibile attenzione e attrazione per il linguaggio?

È una verità che va cercando, e trovando, lo scrittore, che in questo memoir produce sinestesie che plasmano la lingua stessa. Per farlo la lucidità e l’autoconsapevolezza devono affilarsi al massimo. Chi legge resta senza fiato, perché può seguire passo passo le bizze di una mente che cerca se stessa e insieme definisce quanto accade fuori da lei come fosse il primo uomo a vedere le cose per la prima volta.

“Noi matti continuiamo a resistere perché aspettiamo quell’ora piccola in cui finalmente faremo uno di quei respiri che invogliano a scrocchiarsi la schiena coi pugni puntati”.

E questa pazzia ha nomi di farmaci, nomi di malattie psichiatriche, nomi di fatti avvenuti che sembrano allucinazioni e allucinazioni dai nomi precisi, di nomi dati alle cose dagli quegli scrittori che il protagonista legge e a cui pensa ossessivamente.

“La follia non è digitolunare come la medicina: non indica niente, ma sulla luna ci sbarca” dice. Pierantozzi ci porta in un viaggio senza meta, ma che la destinazione cerca, fatto di circonvoluzioni degne di Escher, che a tratti diventano sabbie mobili, ma che – grazie alla precisione del linguaggio – non sono mai pericolose per la vita, perché la lingua si fa appiglio. Qui la scrittura è salvezza

“Affinché la scrittura diventi una conversazione a una voce” scrive Pierantozzi “devo prima scacciare dalla testa le voci dei fantasmi”. “Ricordo e quindi cado in errore: rivedo, riscrivo, reinvento” e, sotto nuove spoglie, si profila un'indagine inedita del rapporto realtà-finzione non tanto nella narrazione, ma intrinseco ai processi cerebrali, e, ancor più, alla vita stessa. Che irrompe.

Conigli squartati, gechi che affondano nell’acqua sullo sfondo di un film porno, topi morti per cementificazione, il corpicino di un fratello seppellito poco più che appena nato, per il quale il padre ha richiesto l’autopsia e i seni della madre continuano a gocciare “questa belva d’onda bianca, saponosa, questa emulsione di glassa smaltata, questo siero di pane quotidiano”. 

Che sia la vita dal suo primo istante la colpevole del male di vivere dell’io narrante? A produrre lo sbilico

“Vivo lo sbilico e nello sbilico delle cose. […] Cerco l’immagine materiale in tutti i passati che conosco, quello prossimo, quello remoto, la cerco al tatto per ritrovarla e quando non la trovo i cani incominciano a squittire, l’acqua va in combustione, tavoli e sedie si disarticolano” e allora che fare? Gli psicologi, gli psichiatri, i professori, gli amici, l’amata madre, l’odiato padre cosa dicono? Cosa fanno?

Ma importa davvero? La verità delle cose non sta in alto. Ci sta dentro.

“Devo continuare a scrivere, devo continuare ad avere commercio con le parole”.

Pierantozzi si spoglia, ci spoglia tutti, e ci veste di immagini linguistiche che se non restituiscono un senso (serve?) lasciano una traccia. Luminosa. Che il lettore ha tra le mani.

Vivo lo sbilico e nello sbilico delle cose Alcide Pierantozzi

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