CULTURA

Il berlusconismo nella storia d’Italia

Ci sono libri in anticipo sui loro tempi, capiti solo anni o decenni dopo. Ci sono libri in ritardo sul momento che avrebbe potuto assicurare loro il successo. Ci sono libri, infine, che arrivano puntuali all’appuntamento con le settimane o i mesi in cui possono influire sul dibattito pubblico e svolgere una funzione utile per il paese. A questi appartiene senz’altro Il berlusconismo nella storia d’Italia di Giovanni Orsina (Marsilio 2013), che presenta un bilancio storico del fenomeno nel momento in cui il suo protagonista sembra sul punto di uscire di scena. Una cronistoria dei quasi 20 anni che ci separano dall’appello agli italiani del gennaio 1994? Al contrario, un meritorio tentativo di inserire gli ultimi due decenni in una visione di lungo periodo dei rapporti fra élite e popolo in Italia.

“Questo libro non parla di Silvio Berlusconi” scrive Orsina “cerca piuttosto di comprendere il berlusconismo: la sostanza del discorso pubblico del Cavaliere, come esso è stato accolto dal paese, perché ha avuto successo, perché non ha funzionato. (…) questo libro muove dall’assunto che nel berlusconismo ci sia stato non poca sostanza politica, che il suo ‘spessore’ sia stato causa non ultima del suo successo e meriti quindi di essere preso sul serio e analizzato con cura”.

Orsina parte - e questo è l’aspetto più interessante della sua ricerca - dal 1861 e tratta il periodo fino al 1992 come “un’entità indifferenziata”. Perché? Perché a suo dire il filo rosso che permette una migliore comprensione della storia italiana dall’Unità a oggi è costituito dalla separazione fra “paese legale” e “paese reale”, i “pessimi rapporti, caratterizzati dalla più profonda sfiducia reciproca fra élite politiche e istituzioni pubbliche da una parte, ‘popolo’ dall’altra”.

In sintesi, l’autore ritiene che la storia d’Italia sia caratterizzata da questa sfiducia ma che la responsabilità principale non vada addebitata a un “popolo” arretrato, familista amorale, timoroso e diffidente verso lo Stato, sempre in cerca di protezione dei potenti. Al contrario, la colpa di questa sfiducia dev’essere attribuita a élite sempre in cerca di soluzioni “ortopedico-pedagogiche” per riformare le masse e costringerle ad accettare la modernità; un tentativo che accomunerebbe le classi dirigenti risorgimentali, il fascismo e la “repubblica dei partiti” instaurata nel 1946. ”Fin dall’epoca del Risorgimento, la storia d’Italia è stata dominata, seppure in forme e con intensità che nei decenni sono mutate anche profondamente, dal tema della forzatura. L’oggetto da forzare, ossia da estrarre volente o nolente, e velocemente, dalla sua arretratezza morale e materiale, era il paese”.

Sarebbe il fallimento di questi tre tentativi di forzatura ad aver determinato la crisi del 1992 e ad aver aperto la strada al berlusconismo, visto come una reazione ai tentativi pedagogici delle tre fasi precedenti. Nel 1994, l’imprenditore di Arcore avrebbe avuto successo non per le sue risorse finanziarie, o per il suo talento comunicativo, bensì perché diceva alla società italiana ciò che questa voleva sentirsi dire, e cioè che il tempo della pedagogia era finito, che il problema italiano non era il popolo ma lo Stato, che era possibile e necessaria una nuova classe dirigente formata di persone competenti ed estranee ai vecchi partiti.

Orsina vede la nascita del berlusconismo come un tentativo di “rivoluzione liberale”, un momento in cui sarebbe stato possibile passare dalla “politica della fede” alla “politica dello scetticismo”, insomma marciare lungo la via aperta da Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Il progetto sarebbe poi parzialmente fallito perché lo stesso Berlusconi ci avrebbe rinunciato e per l’oggettiva difficoltà di trasformare l’antipolitica in movimento politico, come aveva sperimentato nel 1946-48 il precursore di Forza Italia, “l’Uomo Qualunque”. Tuttavia, il bilancio rimane positivo: “Politicizzando l’antipolitica ha estratto dal loro profondo scetticismo, mobilitato e coinvolto nella vita politica (…) pezzi di società che pochi fino ad allora erano riusciti a raggiungere; ha restituito piena rappresentanza alla destra anti-antifascista (…) soprattutto, ha creato le condizioni perché prendesse forma un sistema politico bipolare”.

La ricostruzione è originale e non manca di elementi seducenti, ma presta il fianco a numerose obiezioni, prima di tutto per la semplificazione estrema (malgrado i distinguo introdotti qua e là dall’autore) di 150 anni di storia d’Italia. La Destra storica, la Sinistra storica, Giolitti, Mussolini, De Gasperi, Fanfani, Moro e Andreotti sarebbero stati semplicemente le maschere di ripetuti e velleitari tentativi delle élite di modernizzare il paese. L’alleanza fra borghesia settentrionale e latifondisti meridionali che gestì il periodo postrisorgimentale era la stessa cosa del composito fronte che portò il fascismo al potere per timore di una rivoluzione socialista in Italia? E il partito unico del Ventennio può essere accomunato alla partitocrazia del dopoguerra? Nel libro di Orsina non compaiono classi sociali, tentativi di mediazione, alleanze e rotture politiche: l’unica contraddizione fondamentale sarebbe quella fra élite e masse, fra politici e società civile. In questo, l’autore suona quasi come un intellettuale organico a Beppe Grillo.

La semplificazione estrema rende l’analisi di fondo poco credibile anche perché la “società civile” a cui Silvio Berlusconi si sarebbe rivolto con successo, invitandola a prendere in mano il proprio destino attraverso la sua leadership non è mai stata un’entità omogenea. Al contrario, i piccoli imprenditori del lombardo-veneto ben poco avevano e hanno a che fare con quegli strati di piccola borghesia legata all'apparato statale di Campania e Sicilia. E il “ceto medio riflessivo” composto di intellettuali, insegnanti, studenti, magistrati che ha reagito contro lo spreco di denaro pubblico, l’autoritarismo, l’impunità che caratterizzavano i governi di centrodestra ha ben poco a che fare con i pensionati e le casalinghe disinteressati alla politica, ma fiduciosi (almeno fino al 2011) nell’imprenditore lombardo che voleva il ponte sullo stretto di Messina.

Orsina, che dichiara pressoché in ogni pagina il proprio debito intellettuale nei confronti del filosofo conservatore inglese Michael Oakeshott, ha voluto scrivere una storia d’Italia dal punto di vista di un liberale puro, di un discepolo di Karl Popper, ma per leggere in quest'ottica il berlusconismo ha dovuto ignorare i valori liberali che questo violava quotidianamente: lo spirito pubblico, il rispetto delle istituzioni e delle regole, i conflitti d’interesse. Soprattutto, nel suo ripercorrere le vicende italiane, si è reso colpevole di un peccato imperdonabile per gli storici: il voler “mettere le brache” alla Storia.

Fabrizio Tonello

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