CULTURA

Il paesaggio sonoro di Michelangelo Antonioni

Il 29 settembre 2012 Michelangelo Antonioni avrebbe compiuto cento anni. Un anniversario che sembra essere passato in sordina sia nel mondo della stampa che della tv. Nella dimenticanza generale, una voce fuori dal coro è quella di Roberto Calabretto, autorevole esperto dei rapporti tra linguaggi audiovisivi e forme dell’ascolto. Nel suo libro Antonioni e la musica (edito da Marsilio), Calabretto viene a colmare una lacuna presente nella gran mole di scritti sul regista, e ci racconta del suo modo di utilizzare la colonna sonora, che vuol dire musica e rumori. Ci si può chiedere, legittimamente, quali siano le ragioni di una tale latitanza della critica. La risposta è semplice, per occuparsi di queste zone di confine occorre avere competenze nei due campi, e non è facile. Che Calabretto le avesse era dimostrato già nel libro precedente, Lo schermo sonoro, pubblicato dallo stesso editore veneziano.

In cosa sta la novità di Antonioni? La complessità si può ridurre a due tendenze. La prima vede il rifiuto costante di quella che si è soliti definire musica di accompagnamento, che rinforza e “aiuta” l’immagine, restando quindi in una posizione subalterna. La seconda abbraccia la concezione che la colonna dei rumori non è solo o tanto una riproduzione della realtà quanto un apporto autonomo, quasi mai imitativo, che può invece costituire un ritmo, quindi – per paradosso solo apparente -vicino alla musica. Di cosa stiamo parlando? Del vento, per esempio, o dei rumori della città, delle onde del mare, del riverbero degli oggetti, della “voce delle cose” insomma. La storia del cinema ha pochi esempi analoghi; Robert Bresson è uno di questi.

Ma torniamo alla musica. Antonioni ha più volte dichiarato di non amare la musica nei film; in realtà non l’amava secondo l’uso tradizionale di rinforzo alla narrazione. E se racconti diversamente una storia devi sottrarti a questa consuetudine generale. Il regista, si sa, non predilige i modi evidenti della drammaticità, così la musica deve alludere, rispondendo al criterio generale dell’economicità, poche presenze in pochi momenti. Perché anche il silenzio conta, e come. Questa concezione emerge già nel primo film, Cronaca di un amore, con cui inizia la collaborazione con Giovanni Fusco, e si rinforza poi nel Grido, e in quella trilogia degli anni sessanta (L’avventura, La notte, L’eclisse) che sancì definitivamente proprio l’avvento del cinema della modernità.

Più tardi, per esempio con Blow up e Zabriskie Point, Antonioni si servirà della musica per dare risalto a un’epoca o un ambiente, ma rifiuterà ancora l’accompagnamento e preferirà farci vedere la fonte dei suoni in scena dal vivo, si direbbe. E così la Londra degli anni Sessanta diventa soprattutto quella di Harbie Hancock, l’America del decennio seguente è in particolare quella dei Pink Floyd.

La cultura di Antonioni, così legata alla varietà dei linguaggi contemporanei, dimostra la sua complessità anche in campo musicale. Occorre servirsi del paesaggio che si offre all’occhio ma anche del paesaggio sonoro. Il cinema, diceva Bresson, è un modo di scrivere, cioè di raccontare, ma anche di sentire.

 

Giorgio Tinazzi

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