SOCIETÀ

Italia, la fotografia dei giovani incerti

Una corsa sul posto. Senza poter tornare indietro e senza riuscire ad andare avanti. Niente è più come prima, ma ancora non si è capito come sarà. La cosiddetta società liquida, senza più strutture, legami forti né certezze, si muove, oggi più che mai, in una dimensione sospesa e fragile. E se si è fatta strada la convinzione che il picco negativo della crisi sia ormai alle spalle (così la pensa il 47% degli italiani, il 12% in più rispetto all'anno scorso), ora è l’incertezza a farsi strada. Paura passata, dunque? Per niente. A rivelarlo è il 48esimo Rapporto Censis che ha fotografato la situazione sociale del Paese. “La percezione di vulnerabilità porta il 60% degli italiani a ritenere che a chiunque possa capitare di finire in povertà, come fosse un virus che può contagiare. Pensando al futuro, il 29% degli italiani prova ansia perché non ha una rete di protezione”.

Vite incerte, sospese, potremmo dire. Una condizione precaria che riguarda tutti o colpisce maggiormente i giovani? Secondo il Censis, sale al 43% la quota di chi, con un’età compresa tra i 18 e i 34 anni, si sente inquieto e insicuro. Uno stato di insicurezza e attesa che porta con sé anche una buona dose di disillusione (e scarsa fiducia) rispetto ai fattori più importanti per riuscire nella vita. Cosa serve per farcela? Colpiscono le risposte (e le percentuali italiane sono da confrontare con quelle europee). “Il 51% richiama una buona istruzione e il 43% il lavoro duro, ma per entrambe le variabili la percentuale italiana è inferiore alla media europea, pari rispettivamente al 63% per l'istruzione (82% in Germania) e al 46% per il lavoro sodo (74% nel Regno Unito). In Italia risultano invece molto più alte le percentuali di chi è convinto che servano le conoscenze giuste (il 29% contro il 19% inglese) e il fatto di provenire da una famiglia benestante (il 20% contro il 5% francese). Il riferimento all'intelligenza come fattore determinante per l'ascesa sociale raccoglie solo il 7% delle risposte: il valore più basso in tutta l'Unione europea”. 

Il Paese delle “giare”, dei contenitori con una ricca potenza interna ma incapaci di scambi e comunicazione, e del “capitale inagito”, che non riesce a ottimizzare i talenti, penalizza soprattutto i giovani. Per capirlo basta guardare i numeri: i 15-34enni costituiscono il 50,9% dei disoccupati totali e i Neet, i 15-29enni che non sono impegnati in percorsi di istruzione o formazione, non hanno un impiego né lo cercano, sono in crescita: da 1.832.000 nel 2007 a 2.435.000 nel 2013. Colpisce anche il calo delle iscrizioni all’università. “Tra il 2008 e il 2013 gli iscritti alle università statali sono diminuiti del 7,2% e gli immatricolati del 13,6%. L'andamento decrescente ha interessato tutti gli atenei tranne quelli del Nordovest, dove gli iscritti sono aumentati del 4,1% e gli immatricolati dell'1,3%. Nelle università del Nordest la contrazione dell'utenza è stata più contenuta: -2,3% di iscritti e -5,9% di immatricolati. Al Centro il numero degli studenti iscritti si è contratto del 12,1% e quello degli immatricolati del 18,3%. Negli atenei meridionali rispettivamente dell'11,6% e del 22,5%”.

Ma nonostante l’incertezza e la fragilità, nonostante si sentano maltrattati, emarginati, abbandonati a se stessi, i giovani italiani dimostrano di aver voglia di fare. E molti aspirano a creare il proprio business. “Il 22% ha avviato una startup o intende seriamente farlo nei prossimi anni, un dato in linea con la media europea e superiore a quello tedesco (15%). Il 38% sarebbe interessato ad avviare un’attività imprenditoriale, ma ritiene sia troppo complicato, mentre in Europa tale quota scende al 22% e in Germania al 12%”. Buoni propositi e idee per nuove imprese, da lanciare in un mercato che si è trasformato, e continua a farlo, e in un cui si affermano identità lavorative sempre più ibride. Tra gli occupati di 15-24 anni la quota di ibridi, ovvero non collocabili in profili tradizionali come operai, impiegati, professionisti, è pari al 50,7%. 

F.Boc.

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