CULTURA

Italiani: schiavi della casa in proprietà

Per capire come stanno le cose nell’economia italiana bisogna rivolgersi agli psicologi. No, non a quelli che hanno in cura (si spera) i nostri leader politici ma a quelli che studiano la nostra “propensione al risparmio”, detto più semplicemente, cosa facciamo dei nostri soldi. Tra questi, il più famoso è Paolo Legrenzi, veneziano, autore di un utilissimo libretto intitolato Perché gestiamo male i nostri risparmi (il Mulino).

Il volume di Legrenzi è particolarmente utile per illuminare vari fenomeni che apparentemente non hanno nulla a che fare con la psicologia individuale, come la cementificazione del territorio (particolarmente nel Veneto), la scarsa propensione all’innovazione del nostro tessuto industriale, la convivenza tra genitori e figli fino a tarda età. Molti di questi problemi, infatti, hanno a che fare con la concentrazione del risparmio italiano sull’abitazione: l’80% delle famiglie ha la casa in proprietà, i due terzi della ricchezza nazionale sono concentrati sul mattone. “Questo patrimonio non è investito in modo lungimirante” commenta Legrenzi.

Il motivo è semplice: l’ossessione per la casa ha come effetto una relativa carenza di credito per l’innovazione, la sperimentazione produttiva, il rischio. Gli italiani, nelle classifiche internazionali, appaiono più ricchi dei tedeschi, ma semplicemente perché hanno convertito il loro risparmio degli anni Settanta e Ottanta in villette con giardino o in appartamenti al mare invece di affidarli al sistema bancario o ai fondi di investimento. I banchieri, a loro volta, sono italiani quanto e più del resto di noi, per cui prestano solo a chi ha dei “beni al sole” da offrire in garanzia invece di valutare le probabilità di successo di un progetto economico. Risultato, il sistema di risparmio dello “stratificarsi nel corso dei decenni” di decisioni collettive di milioni di famiglie ha prodotto un sistema economico che tende alla stagnazione.

Questa realtà era stata rilevata da Innocenzo Cipolletta già nel 1997 in un suo libro, La responsabilità dei ricchi, la cui tesi essenziale era che gli italiani sarebbero stati meglio se si fossero decisi ad ammettere che l’Italia era un paese ricco e non più un paese povero. Gli anni Settanta avevano segnato il decollo industriale della “terza italia”, cioè quel tessuto di piccole e medie imprese del Veneto, dell’Emilia, delle Marche che avevano portato la prosperità in zone dalle quali, ancora negli anni Sessanta, si emigrava in Germania, in Svizzera, in Australia.

È stata questa “sindrome della povertà”, per cui il primo bisogno da soddisfare è la casa, a provocare una corsa al mattone, favorita dagli elevatissimi tassi di risparmio della famiglia italiana, che alla fine degli anni Settanta avevano toccato il 25% del reddito annuale e nel 1991 era ancora attorno al 24% (oggi è attorno al 10%). Questa decisione, perfettamente comprensibile sul piano psicologico, ha portato però a un risultato socialmente negativo: distruzione del territorio, congelamento della ricchezza, scarsa propensione al rischio, permanenza dei giovani in casa con i genitori fino ai 30 anni e oltre.

Questi fenomeni, com’è ovvio, hanno altre concause (il “familismo” italiano ha radici in comportamenti modellati nei secoli) ma la psicologia delle famiglie ha aggravato problemi che, con scelte di risparmio differenti, avrebbero potuto essere mitigati o risolti.

La sindrome del mattone ha effetti anche sulla politica europea, o meglio sui negoziati con la Germania: la ricchezza netta delle famiglie italiane, gonfiata dai prezzi immobiliari, appare 8 volte il reddito medio, mentre quella delle famiglie tedesche solo 5,26 volte. Il risultato è una più che comprensibile reticenza di Angela Merkel ad autorizzare una gestione più keynesiana della nostra spesa pubblica: anche dal nuovo governo possiamo aspettarci solo dei “no”.

Fabrizio Tonello

Paolo Legrenzi, Perché gestiamo male i nostri risparmi. Bologna, il Mulino, 2013

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