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I padroni delle Big Tech non sono stati i soli a ritagliarsi un posto in prima fila della nuova amministrazione statunitense. Un paio di settimane prima della cerimonia d’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, alcuni dei pezzi più grossi della finanza globale avevano già rivolto il loro personale inchino di benvenuto al neo presidente.
L’8 gennaio il fondo di investimento più grande al mondo, Black Rock, che gestisce circa 11.500 miliardi di dollari, ha annunciato la sua uscita dalla Net Zero Assets Managaer Initiative (NZAMI), un gruppo che riunisce circa 57.500 miliardi di dollari e più di 300 investitori, impegnati con le proprie decisioni a favorire il raggiungimento della neutralità carbonica al 2050.
Già da inizio dicembre invece sei tra le più grandi banche degli Stati Uniti (JP Morgan, Citigroup, Bank of America, Morgan Stanley, Wells Fargo e Goldman Sachs) hanno progressivamente lasciato la Net Zero Bank Alliance (NZBA), un’alleanza bancaria volontaria nata nel 2021 alla Cop 26 di Glasgow, che è stata promossa dalle Nazioni Unite per sostenere finanziariamente la transizione verso un mondo a zero emissioni nette. La NZBA oggi conta oggi conta più di 140 membri.
Quattro di queste sei banche fanno anche parte di quella che è stata chiamata, dal rapporto Banking on climate chaos dello scorso anno, la sporca dozzina, ovvero le 12 banche che più di tutte hanno finanziato a livello globale lo sviluppo di combustibili fossili nell’ultimo decennio.
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Banking on climate chaos 2024
Il rapporto, che riunisce dati finanziari raccolti da altri attori come Bloomberg, mostra che le 60 banche più grandi al mondo si sono impegnate a dare 6.900 miliardi di dollari ad aziende del settore dei combustibili fossili negli 8 anni che hanno seguito l’accordo di Parigi, dal 2016 al 2023. Quasi la metà di questi soldi, 3.300 miliardi di dollari, sono destinati a progetti di espansione che puntano ad ampliare il volume dell’economia fossile.
In cima alla lista c’è JP Morgan Chase, con oltre 430 miliardi di dollari in 8 anni. Nel 2023 ha aumentato i finanziamenti rispetto all’anno precedente, passando da 38,7 a 40, 8 miliardi, così come ha aumentato quelli ai progetti di espansione, da 17,1 a 19,3 miliardi.
Il podio della sporca dozzina è tutto americano: al secondo posto c’è Citigroup con oltre 396 miliardi in 8 anni e al terzo posto c’è la Bank of America con più di 333 miliardi. Nei 60 posti della classifica figurano anche le altre due banche statunitensi che hanno lasciato la NZBA, ma anche le italiane Unicredit, al 35esimo posto con 67 miliardi, e Intesa San Paolo, al 42eismo posto con 47 miliardi.
Anche una recente analisi di Bloomberg conferma che le banche preferiscono ancora l'economia dei combustibili fossili rispetto a quella delle fonti energetiche a basse emissioni. Nel 2023, per ogni dollaro che le banche hanno messo a disposizione dell'Oil & Gas, ne hanno messi 0,89 a sostegno delle energie green. Si tratta per lo meno di un dato in crescita rispetto al 2022 (0,74 dollari).
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Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, l’Europa ha voluto sostituire il gas russo con altre forniture provenienti da Paesi come Algeria, Azerbaijan, Qatar e Stati Uniti. Negli ultimi anni, dunque già con l’amministrazione Biden, Washington ha consolidato la sua leadership globale di primo Paese produttore sia di petrolio, davanti all’Arabia Saudita, sia di gas, aumentando il distacco dalla Russia.
L’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) si attende, almeno fino al 2030, un notevole aumento soprattutto dei volumi di gas naturale liquefatto (GNL). La domanda del prossimo futuro sarà spinta questa volta dall’Asia, mentre la crescita dell’offerta sarà guidata soprattutto da Qatar e proprio dagli Stati Uniti. Il rapporto conferma che nel 2023 i finanziamenti bancari al settore del GNL sono arrivati a 121 miliardi di dollari, in crescita di 5 miliardi rispetto all’anno precedente.
Complessivamente emerge anche l’industria dell’Oil & Gas sta rafforzando la propria posizione, poiché nel 2023 alla voce acquisizioni sono andati più di 63 miliardi, il valore più alto registrato dal 2020.
Il rapporto mostra anche quali sono le aziende che beneficiano maggiormente dei finanziamenti che supportano progetti di espansione. Al primo posto con 35 miliardi di dollari nel 2023 c’è la canadese Enbridge, che punta a sviluppare 1260 km di oleodotti e nuove infrastrutture per il GNL. Proprio Enbridge ha recentemente acquisito tre utilities, diventando il più grande fornitore di gas del Nord America.
Con 11,69 miliardi nel 2023, al quinto posto dei progetti di espansione più finanziati ci sono quelli dell’italiana Eni, incentrati soprattutto in Africa, ma non solo: Angola, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Egitto, Ghana, Libia, Nigeria, ma anche Italia, Norvegia, Kazakistan, Messico, Qatar, Emirati Arabi, Venezuela, Regno Unito e Stati Uniti. Il 71% dei piani di espansione di Eni, si legge sul rapporto, sforano lo scenario di neutralità climatica al 2050 previsto dalla IEA.
L’analisi di Banking on climate chaos restringe ulteriormente il focus. Solo 10 banche, tra cui le statunitensi, ma anche l’europea BNP Paribas, le britanniche Barclays e HSBC, la svizzera UBS e la giapponese SMBC, supportano il 56% dei maggiori progetti di espansione fossile, appartenenti alla ventina di più importanti aziende del settore Oil & Gas.
Delle 60 banche oggetto del rapporto, 42 facevano parte, nel 2023, della NZBA: in quell’anno soltanto hanno dato 253 miliardi di dollari all’industria dei combustibili fossili, per espandere le loro operazioni.
Dei 60 istituti finanziari analizzati dal rapporto, solo uno, la francese Banque Postale, ha stabilito un piano di uscita dal supporto ai combustibili fossili, mentre 6 hanno sviluppato un piano di uscita dal carbone. Tutti gli altri hanno fissato degli obiettivi di neutralità climatica, al più tardi al 2060, mentre uno, il coreano KB Financial Group (membro della NZBA), non ha presentato nemmeno quello.
“Nel valutare la NZBA” ha scritto su The Guardian Adrienne Buller, autrice di The value of a whale “il benchmark che conta più di tutti è quello che abbassa le emissioni globali e la crescita dei combustibili fossili. Su entrambi questi punti, non è evidente che l’alleanza abbia prodotto alcun effetto”.
Una recente ricerca condotta da Parinitha Sastry della Columbia Business School ha infatti trovato “scarse evidenze che suggeriscono che gli impegni di neutralità carbonica portino a significative riduzioni del finanziamento ad attività emissive o a sostanziali aumenti di finanziamento ad attività sostenibili. Questo mette in dubbio l’efficacia delle iniziative volontarie del settore privato nel guidare la decarbonizzazione”.
Nel mostrare la mancanza di prove di una reale efficacia delle dichiarazioni di sostenibilità, studi come questo svelano al contempo la presenza di un altro tipo di evidenza: il greenwashing dilagante nel settore finanziario privato.
Non solo quindi questi grandi capitali non mantengono gli impegni climatici cui hanno aderito, ma ora addirittura retrocedono da quelle false promesse. Sebbene possa sembrare paradossale, la ragione per cui lo fanno ha a che fare con le forti pressioni che ricevono proprio dalla prima economia mondiale che, con Trump ancora di più, vuole il più possibile capitalizzare su quello che è la specialità della casa: oltre alle armi, gas e petrolio.
A novembre dello scorso anno, Black Rock era stata denunciata da una decina di Stati federali a guida repubblicana, capeggiati dal Texas, con l’accusa di aver creato una sorta di “cartello climatico”, in violazione delle norme anti-trust, che avrebbe portato al calo della produzione di carbone e all’aumento dei prezzi dell’energia negli Stati Uniti. L’accusa era stata portata alla Camera, dove una commissione giudiziaria a guida repubblicana aveva puntato il dito anche contro la Glasgow Financial Alliance for Net Zero, da cui è nata la NZBA.
È come se la destra americana avesse mosso un processo all’intenzione di ridurre i finanziamenti alle attività energetiche emissive. Una sorta di intimidazione preventiva, perché quei capitali non hanno mai smesso di alimentare l’economia dei combustibili fossili. Ma è bastato quello: Black Rock ha perso valore in quegli Stati repubblicani che l’avevano accusata e poco più di due mesi dopo ha abbandonato l’alleanza per la sostenibilità di cui faceva parte, NZAMI, così come hanno fatto JP Morgan e le altre banche statunitensi lasciando la NZBA.
L’unica buona notizia, se così si può dire, è che queste alleanze della finanza privata non hanno mai dimostrato di essere veramente efficaci nella lotta al cambiamento climatico.