CULTURA

L’Italia un paese guerriero

Da quella che doveva essere una “passeggiata militare”, vale a dire la conquista della Libia, alla seconda guerra mondiale, all’inizio concepita come guerra difensiva, poi trasformata in guerra subalterna, quindi in guerra di sopravvivenza e, infine, in guerra perduta. In questo arco temporale è spaziato l’intervento dello storico Federico Minniti, docente all’università di RomaTre, su “Guerre fasciste, guerre italiane”. Un titolo suggestivo con la sola finalità di circoscrivere un periodo, quello fascista – ha commentato Minniti – non per rimarcarne la peculiarità, perché “le guerre sono di tutti, dal momento che riguardano tutti”.

Quella in Libia per Mussolini e i fascisti fu una guerra ereditata. Fu il governo Giolitti, in crescente difficoltà, a volerla nel 1911. Presentata come facile conquista di una sorta di “terra promessa”, fertile e ricca d’acqua, pretese invece dieci anni di combattimenti. Alla fine, un accordo con Muhammad Idris (1919-20) prevedeva una vasta autonomia alla Libia in cambio del riconoscimento della sovranità italiana. Ma con l’avvento del fascismo la situazione si fa di nuovo incandescente. Quella “guerra lontana”, con Mussolini e i fascisti a decidere e gli italiani che si adeguano, vede la Libia fra il 1928 e il 1931 stretta in una morsa, fiaccata da bombardamenti e dall’impiego di gas. Per isolare i combattenti, vengono allestiti una dozzina di campi di concentramento. È una “guerra lontana” che coinvolge poco gli italiani anche perché la censura innalza una cortina quasi impenetrabile. Nel 1932, con un bilancio impressionante di vittime civili, la Libia unificata è sotto il controllo italiano ma limitatamente alle grandi città e alle principali vie di comunicazione.

C‘è subito un’altra guerra, stavolta avvertita come “vicina” perché “nazionale”, che divampa. Cambia la sua natura, da guerra di espansione si trasforma in guerra di conquista con un forte ricorso alle forze armate del Paese. Il Regno d’Italia invade il territorio dell’Impero d’Etiopia a partire dall’ottobre 1935. Le truppe sono comandate dal Emilio De Bono, ex quadrumviro, con esperienza militare in Libia. L’Italia impiega almeno 500.000 uomini, “un’enormità” – afferma Minniti – con l’aggiunta di almeno 100.000 ascari". Avanza conquistando Adua e Axum la capitale religiosa dell’Etiopia. Ma “De Bono è un combattente carente, si ferma. È pieno di paure”. A metà novembre De Bono è sostituito dal generale Pietro Badoglio. Si susseguono sei battaglie campali. L’Italia non esita a usare massicciamente armi chimiche. Il 5 maggio 1936 le truppe di Badoglio entrano ad Addis Abeba. Il 9 maggio Mussolini annuncia la fine della guerra e proclama la nascita dell’Impero. Eritrea, Abissinia e Somalia Italiana vengono riunite sotto un unico governatore. In Italia anche la borghesia a-fascista sembra appagata dall’impresa. Lo Stato assume il ruolo di osservatore  nella produzione bellica italiana. In pratica prende il controllo dell’industria bellica. Nel contempo deve difendersi dalle azioni di guerriglia nei territori occupati. Là la guerra non finisce mai. Le perdite sono elevate: 4.000 morti in Etiopia, un numero imprecisato in Libia.

Nel 1936 divampa un’altra guerra, stavolta non più nazionale ma solo “fascista”. Una “guerra fuori casa”, una sorta di emigrazione militare in Spagna, in appoggio ai franchisti. Durerà 3 anni, con la piena soddisfazione degli ufficiali e dei soldati italiani che percepiscono un doppio stipendio, da Italia e Spagna. Gli italiani hanno un rapporto stretto con la popolazione spagnola. Là si può anche scappare. A fronte delle troppe diserzioni, l’esercito italiano opera un repulisti. Ritira 4.000 uomini e ne invia altri 10.000, con una forte componente aeronautica. Nel marzo 1938 vengono effettuate 12 incursioni su Barcellona. Centri urbani vengono rasi al suolo per indebolire il morale degli antifranchisti.

L’ideologia bellicistica fascista non ammette soste e scandisce altre tappe della seconda guerra dei 30 anni, fra il 1915 e il 1945. Nel 1937 soffiano i primi venti di guerra contro Francia e Inghilterra. Nel 1939 c’è il “piano di adunata”, fra il 26 e il 31 marzo del 1940 lo stesso Mussolini scrive il piano di guerra: di difesa sulla terraferma e di attacco in mare. L’Italia per ora non vive tuttavia in un’economia di guerra. L’opinione pubblica segue con attenzione le mosse del governo fascista. Il questore di Bologna annota che c’è “un entusiasmo cosciente”, mentre tra i generali si nota un certo imbarazzo per uno stato di guerra senza ostilità. Ma in breve tempo la guerra diventa vera. Si allarga alla Grecia, poi l’Italia sente di non poter mancare sul fronte russo. L’opinione pubblica esprime prima stupore poi sdegno. Dove si andrà a parare? La propaganda fascista non riesce neanche a individuare un “nemico”. Manca chiarezza sullo scopo della guerra. Vittoria per chi e per che cosa? Si spera che la guerra faccia finire la guerra. Muore anche l’illusione della guerra breve. Le guerre in Africa e in Russia si risolvono in disastri per l’Italia. La guerra ci arriva in casa. Alla fatica di vivere si aggiunge il rischio di morire. L’ostilità diventa sempre più forte, non contro il nemico ma contro il fascismo. Così come la tensione fra popolazioni, autorità locali e Stato. I bombardamenti sono pesanti. Napoli, Messina, Foggia, Rimini sono demolite per il 75%. L’Italia si scuce. Si combatte per evitare la sconfitta. È lotta per la sopravvivenza, mentre si cercano contatti con gli alleati. Mussolini non trova una via d’uscita. Vuole dire basta a Hitler ma a Feltre subisce una filippica di due ore. I centri formali del potere si disperdono. La  politica rialza la testa, i partiti si organizzano. La sconfitta sembra non appartenere a nessuno. C’è la guerra di Liberazione, che è anche guerra di liberazione dalla guerra. 

Valentino Pesci

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