SCIENZA E RICERCA

Gaza, la scienza ai tempi delle bombe

Quanto talento, quante idee, quanto potere costruttivo viene annichilito quando c’è in gioco la violenza?

Sono trascorsi 535 giorni dal 7 ottobre 2023, quando, in risposta ai terribili attacchi condotti da Hamas in Israele, le forze israeliane, su ordine del premier Benjamin Netanyahu, hanno dichiarato lo stato di guerra. Un conflitto armato che, in oltre 500 giorni di guerra, ha coinvolto civili, in larga parte bambini, stravolgendo le loro vite quando non uccidendoli. Un dato ampiamente confermato dall'Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite e da diverse organizzazioni internazionali per i diritti umani.

Nel contesto di questa drammatica realtà, il giornalista freelance Michele Catanzaro ha indagato gli effetti della guerra di Gaza sul mondo accademico e sui diritti umani degli scienziati in un articolo pubblicato su Nature. Perché quando la vita viene rasa al suolo e delle Università rimangono solo delle macerie, fare ricerca, dare un contributo al mondo con il proprio sapere, sembra un’impresa utopica ed impossibile. Perché quando l’obiettivo della propria giornata diviene sopravvivere, come ci si può dedicare ad altro?

La guerra ha avuto due impatti immediati sul mondo accademico: il primo, la morte. Nonostante i bilanci delle vittime fornite dal ministero della salute di Gaza siano drammaticamente elevati (si parla infatti di circa 50.000 morti, comprese le vittime dei raid israeliani dei giorni scorsi, i primi dopo la tregua che era stata decisa il 19 gennaio 2025), numerosi report suggeriscono che questo dato sia gravemente sottostimato. Uno studio pubblicato su Lancet, stima che il numero delle vittime sarebbe maggiore almeno del 40%, portando il totale delle vittime a circa il 3% della popolazione di Gaza a prima dell’inizio del conflitto.  

Tra queste vittime, stando a quanto affermato alla fine del 2024 dall’Autorità Nazionale Palestinese nella West Bank, ci sono più di 100 persone tra ricercatori e personale dell’amministrazione universitaria, oltre 600 studenti e tre rettori.

Il secondo impatto è stato quello sull’infrastruttura scientifica: le università presenti sul territorio di Gaza sono sette e contano 21 campus. A settembre 2024, di questi campus 18 erano inservibili: sette sono stati completamente distrutti e 11 avevano riportato un tale livello di danni da non essere più utilizzabili.

Ricercatori e specialisti in assistenza umanitaria affermano, inoltre, che il 90% della popolazione gazawi sia senza casa: si tratterebbe di circa 2,2 milioni di persone.

“Al di là di questi dati, che rappresentano l’impatto fisico della guerra - racconta Catanzaro - ci sono tutta un’altra serie di questioni che coinvolgono la salute mentale e l’organizzazione quotidiana della vita delle persone: per oltre 80.000 studenti sono state sospese le lezioni, i problemi con l’elettricità e Internet hanno impedito ai ricercatori di poter svolgere il loro lavoro di studiosi, costretti ad avere a disposizione la corrente elettrica solo per qualche ora al giorno, magari in call center, con dei pannelli solari”.

L’indagine di Catanzaro prende vita con una vera e propria ricerca sistematica: “Ho parlato con un ricercatore palestinese che viveva in un campo di rifugiati e, nonostante questo, cercava di portare avanti il suo lavoro, di pubblicare alcuni paper. Mi ha parlato di altri colleghi – prosegue Catanzaro - e così ho iniziato a cercare attraverso database bibliografici se a partire dalla guerra fossero stati pubblicati articoli scientifici associati a Gaza”. Effettivamente dei paper c’erano e, cosa più rilevante, descrivevano la condizione della guerra: i ricercatori utilizzavano le loro conoscenze e le loro competenze scientifiche per studiare quello che stava succedendo, cercando di rendere il proprio lavoro costruttivo e utilizzare le proprie competenze scientifiche per affrontare il presente.

Vale la pena citare, ad esempio, il lavoro di Ahmed Hilles, responsabile del National Institute for Environment and Development a Gaza, il quale ha evidenziato l’importanza di rimuovere i detriti causati dai bombardamenti.

Secondo una valutazione del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, per ogni metro quadrato della Striscia di Gaza, si contano circa 100 chilogrammi di detriti: cemento, ferro, acciaio, residui di bombe esplose e inesplose, amianto e resti umani.

Ma oltre il 97% dell’acqua di Gaza proviene da falde acquifere sotterranee e la porosità del terreno è estremamente elevata, dunque è essenziale rimuovere le macerie, per prevenire il rischio di contaminazione delle falde e, conseguentemente, dell’acqua. A contribuire alla scarsità dell’acqua concorrono però anche altri fattori: l’interruzione dell’elettricità da parte di Israele ha bloccato il funzionamento degli impianti di desalinizzazione, fondamentali per garantire l’acqua potabile, mentre le infrastrutture idriche risultano gravemente danneggiate e manca il carburante necessario per alimentare le stazioni di pompaggio.

E se, prima della guerra, solo il 10% della popolazione aveva libero accesso all’acqua potabile, secondo quanto affermato da Ahmed Hilles in un report sulle necessità per la ricostruzione di Gaza, in tali condizioni la percentuale scende drammaticamente al 4%.

I bombardamenti hanno tra l’altro compromesso il funzionamento della rete fognaria. Michele Catanzaro ha intervistato per il suo articolo Samer Abuzerr, un ricercatore che studia le malattie trasmesse dall'acqua presso lo University College of Science and Technology di Gaza. Abuzerr ha raccontato come l’acqua di fogna rimanga per le strade della città, dando origine a una serie di malattie, quali infezioni respiratorie, diarrea, eruzioni cutanee, scabbia ed epatite virale. Tutto questo in un contesto in cui il sistema sanitario di Gaza è in ginocchio: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, di 36 ospedali presenti nella Striscia, solo la metà risulta essere operativa.

Nel descrivere il mondo della ricerca accademica nella Striscia di Gaza, Michele Catanzaro ha raccontato la vita dei suoi attori, dei ricercatori che non sono (solo) più ricercatori, ma esseri umani costretti ogni giorno a lottare per sopravvivere. È la storia di chi, nonostante abbia visto crollare tutta una vita sotto l’assordante esplosione di una bomba, continua a portare avanti il proprio lavoro di studioso da un campo profughi, nella speranza di poter creare una base scientifica che contribuisca alla ricostruzione del territorio.

“Di fatto – ricorda Catanzaro - gli stessi ricercatori che hanno continuato la loro attività, sono stati costretti a passare a metodi più qualitativi: non avendo a disposizione alcun tipo di strumentazione, anche cose così semplici come raccogliere campioni di sangue e analizzarli è complicatissimo”.

È proprio in questo senso che la comunità scientifica internazionale deve supportare i ricercatori palestinesi: le università internazionali devono creare le condizioni per favorire collaborazioni, promuovendo quella che Catanzaro definisce una vera e propria “diplomazia scientifica”. La richiesta che proviene dai ricercatori gazawi è proprio quella di essere aiutati con la documentazione, con la ricerca, non solo per descrivere e misurare quello che sta accadendo, non solo per la creazione di una memoria storica, ma soprattutto per pianificare una concreta ricostruzione della Striscia di Gaza.  

D’altronde, forme di collaborazione sono presenti anche all’interno della comunità scientifica palestinese e israeliana. Vale la pena menzionare il team di Jacob Hanna, ricercatore arabo-israeliano, scopritore degli embrioni sintetici, che lavora al Weizmann Institute di Israele. Per citare, invece, iniziative di collaborazioni, rilevante è quella tra l’Arava Institute for Environmental Studies, centro di ricerca ambientale a Israele, e l’organizzazione gazawa Damour for Community Development, che insieme hanno cercato di portare sul territorio di Gaza pannelli solari ed altre risorse.

Questo a dimostrazione del fatto che là dove la politica fallisce, il mondo accademico, la scienza, la cultura possono ancora trovare il modo di fare la differenza.

Ci sono molte cose che possono essere fatte, alcune sono già state realizzate, come nel caso di Scholars at Risk: una rete internazionale di università che ha fornito borse di studio a ricercatori in difficoltà. Ma in contesti di guerra, dove i diritti umani degli scienziati (e non solo) sono messi in pericolo, il contributo più significativo che si possa offrire a un popolo è quello di supportare la sua ricostruzione. Perché “stiamo descrivendo una situazione umana estrema: la gente mi parlava di cose molto pratiche- racconta ancora Catanzaro – come vivere in casa con le finestre rotte, sentire un bombardamento sopra la propria testa. E ascoltando e raccontando le storie individuali di ciascuno di loro, entra in gioco il fatto che siamo tutti esseri umani. Passando allora dai numeri alle storie individuali, si riesce a capire veramente quale sia la portata di questa tragedia e di cosa la guerra significhi”.

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