SOCIETÀ

La morte, un imbarazzo da nascondere

“Ho sempre detto ai miei chirurghi che manca loro una materia: forse quando fate l’università non vi fanno la parte relazionale. Dovete anche fermarvi con il paziente, non potete dire ‘firmi qua che adesso la porto in sala operatoria’”. Paola, infermiera di lunga esperienza, esprime con semplicità uno dei risvolti più oscuri del rapporto medico – paziente: una relazione che spesso, semplicemente, manca; un legame che si limita alla gestione farmacologica e terapeutica della persona, ma che tralascia ogni aspetto legato all’emotività e alla comunicazione. Un vuoto che si fa drammatico soprattutto nei confronti dei malati terminali, pazienti che, più di ogni altro, hanno assoluto bisogno di dialogo, spiegazioni, attenzione. Giunti sul passo estremo è il titolo della ricerca che un’équipe di sociologi e antropologi coordinati da Gustavo Guizzardi ha compiuto per fare luce sulle dinamiche personali, culturali, sociali che si dispiegano tra familiari, medici, operatori sanitari quando è necessario organizzare l’assistenza a un malato non più curabile. Lo studio, riportato in un volume (Guerini, 2014) non intende entrare nei grandi dibattiti bioetici che l’avanzamento tecnologico rende sempre più urgenti; l’analisi è dedicata a osservare come il fine vita (con le fasi susseguenti della morte e del lutto) chiami in causa, intorno al morente, un gran numero di persone diverse per ruoli, gerarchie, libertà d’azione. E come la gestione degli ultimi mesi dell’esistenza di una persona dipenda da una pluralità di fattori: le decisioni dei familiari, la sapienza di medici e infermieri, la sensibilità delle altre figure sanitarie, ma anche la provenienza del malato e le tradizioni cui la comunità del paziente è legata. Ne emerge un quadro vario quanto il livello della nostra sanità, in cui nei casi di eccellenza, quando avviene una reale collaborazione sul territorio dei soggetti coinvolti, viene garantito tutto il sostegno medico e psicologico di cui il paziente e i suoi cari hanno bisogno, creando le condizioni perché questo drammatico processo si compia nel rispetto della dignità dell’assistito e di chi lo circonda; ma accanto a questi, abbondano casi di tragica assenza di coordinamento, caos gerarchico, capovolgimento di ruoli. Sullo sfondo, il tema che è l’universale collante delle storie raccontate: l’incapacità della società occidentale contemporanea di accettare e gestire la fine della vita, con la conseguenza della sua rimozione dal campo del visibile e del quotidiano. Una medicalizzazione estrema della morte che porta gli operatori e gli stessi parenti a sradicarla dall’ambiente domestico per trasferirla in quello ospedaliero, spesso in assenza di strutture adeguate, trattamenti palliativi, staff multidisciplinari in grado di far fronte alla complessità di queste situazioni. Per il fine vita si ripropongono, accentuati dalla drammaticità del momento, molti dei dilemmi e dei problemi che riguardano i malati non terminali: la responsabilità del medico nel non riferire al paziente la diagnosi, su richiesta dei familiari; la discrezionalità nel sottoporre il malato non cosciente a rianimazione o trattamenti invasivi contro la sua volontà; la difficoltà nella collaborazione tra medici e infermieri, in cui i secondi troppo spesso non riescono a valorizzare le proprie competenze ed esperienze perché gerarchicamente subordinati; la pratica crescente della “medicina difensiva”, volontario eccesso o difetto nella somministrazione di farmaci o trattamenti, nel timore di azioni legali da parte dei parenti del malato; l’assenza di appropriate terapie del dolore. All’inadeguatezza dei reparti di terapia intensiva e rianimazione, che si trovano con frequenza a gestire il fine vita senza risorse e competenze adatte, si contrappone il modello degli hospice: reparti autonomi in cui pazienti e familiari possono trovare un ambiente intermedio tra l’ospedale e la casa, nel quale l’assistenza è personalizzata e il rapporto con i sanitari è ben più umano e gratificante. Strutture ancora troppo poco diffuse e sostenute, così come ancora poco praticata è l’assistenza al malato nel suo domicilio, a causa delle troppe carenze organizzative e finanziarie che caratterizzano le aziende sanitarie, ma anche della resistenza da parte degli stessi familiari. Giunti sul passo estremo si chiude con la constatazione di un paradosso: in una società in cui la morte non è più ammessa e quindi è neutralizzata occultandola, spetta alle comunità straniere presidiare in solitudine le corsie dei pazienti incurabili; e i chiassosi raduni di parenti ivoriani o cingalesi che affollano, malvisti, i reparti dei nostri ospedali, la loro presenza incalzante, i complessi riti con cui prendono congedo dal defunto, servono a ricordarci quanto il “passo estremo” appartenga, a pieno titolo, alla vita di tutti.

Martino Periti

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