CULTURA

La ricetta per la felicità? Vestirsi di stracci e mangiare avanzi per una settimana

Questa rubrica ti cambierà la vita” è il titolo (ovviamente autoironico) della column dedicata al benessere personale che da sei anni Oliver Burkeman tiene ogni settimana sul “Guardian”. “Mi è stato fatto notare – scriveva il giornalista nel settembre 2006, inaugurando la rubrica – che il segreto della felicità umana non è ancora stato scoperto. Una mancanza non da poco, se si pensa alla quantità di attenzione che l'argomento ha ricevuto dai più grandi pensatori della storia, come Aristotele nella sua Etica Nicomachea o Paul McKenna in Cambia vita in 7 giorni”.

Duecentosettantasei articoli dopo, avendo spaziato su una varietà di temi che vanno dal multitasking alle diete, dai rapporti con i colleghi d'ufficio all'insonnia (e – non dimentichiamolo – con in mezzo una crisi mondiale, che è cominciata e non si sa quando finirà), Burkeman è diventato un esperto in materia di felicità. E naturalmente ha scritto due libri. Il primo, uscito da Canongate alla fine del 2010, si intitolava Help! How To Become Slighty Happier and Get a Bit More Done e consisteva essenzialmente in una raccolta degli articoli pubblicati sul “Guardian”. Più ambizioso il secondo, approdato un paio di settimane fa nelle librerie britanniche. Questa volta infatti il giornalista si propone di offrire ai suoi lettori “l'antidoto”, ovvero una guida alla “felicità per le persone che non sopportano il pensiero positivo” (The Antidote. Happiness for People Who Can't Stand Positive Thinking).

Il vero problema, scrive Burkeman, è che la nostra cultura è ossessionata dalla ricerca della felicità, per raggiungere la quale basterebbe – secondo  la maggior parte dei manuali di self-help – “pensare positivo”, allontanando dalla mente gli spettri della tristezza e dell'insuccesso. Ma, come insegna Dostoevskij, cerca di non pensare all'orso bianco e la maledetta bestiaccia ti comparirà continuamente di fronte agli occhi, secondo quella che Aldous Huxley ha definito “la legge dello sforzo rovesciato".

“Sono i nostri continui tentativi di eliminare tutto quanto è negativo (l'incertezza, il fallimento, la malinconia...) che ci fanno sentire così insicuri, ansiosi, infelici”, mentre “accogliere nella propria esistenza l'insuccesso, includere nel proprio orizzonte la morte” può aiutarci a raggiungere la felicità, e soprattutto a chiederci cosa intendiamo per felicità, sentenzia l’autore nell'introduzione a The Antidote. Burkeman ha per fortuna il buon senso di non atteggiarsi a sua volta a guru e di ammettere che “il cammino negativo verso la felicità”, come lo definisce, è stato percorso da tanti, ben prima di lui. Come Seneca, per esempio, che ai suoi seguaci timorosi di cadere in disgrazia consigliò di vestirsi di stracci e di mangiare avanzi per una settimana, in modo da gioire della consapevolezza che è possibile sopravvivere anche in condizioni disagiate. (Un suggerimento da non disprezzare, in tempi di recessione galoppante).

Su un punto, tuttavia, bisogna dissentire da Burkeman, convinto che il “Positive Thinking” sia figlio della Grande depressione, e da testi come quelli di Dale Carnegie (Le cinque qualità essenziali per costruire un rapporto con gli altri, avere successo ed essere felici) che furoreggiarono negli Stati Uniti degli anni Trenta e che anche adesso non se la passano male, a giudicare dalla frequenza con cui vengono riproposti da Bompiani, che ne detiene i diritti per l'Italia. Certo, Carnegie e imitatori, prima fra tutti la tremenda Rhonda Byrne del multimiliardario Segreto, hanno le loro belle responsabilità nello spacciare la felicità come merce da acquisire a tutti i costi.

Ma non dimentichiamo che Self-Help di Samuel Smiles, tradotto da noi come Chi si aiuta Dio l'aiuta, vendette nell'Italia ben poco alfabetizzata del 1865 centocinquantamila copie, tanto che il primo ministro Menabrea commissionò una analoga raccolta di “storie di successo” nostrane, che fu scritta da Michele Lessona sotto il titolo significativo di Volere è potere. A dimostrazione che il Memento mori di trappista memoria, evocato entusiasticamente da Burkeman, non ha mai goduto di grandi favori.

 

Maria Teresa Carbone

 

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