SOCIETÀ

Le complicità italiane con la dittatura argentina

Qualcuno lo chiama lo Schindler o il Perlasca di Buenos Aires: paragoni che probabilmente infastidiscono Enrico Calamai, giovane viceconsole italiano in Cile e in Argentina durante gli anni bui della dittatura, invitato la settimana scorsa a parlare agli studenti a Padova. Un intervento corposo e approfondito sul rapporto difficile del nostro Paese con i diritti umani, spesso proclamati solo a parole: “L’Italia è sempre in prima fila a firmare le convenzioni a tutela dei diritti umani – ha detto il diplomatico – salvo poi trovare il modo di defilarsi, in sede di ratifica o di attuazione degli obblighi assunti, come nel caso della convenzione internazionale contro la tortura”.

Dal golpe argentino del 24 marzo 1976 fino al maggio del 1977, quando fu trasferito, Calamai riuscì con ogni mezzo a far espatriare almeno 300 cittadini italoargentini tra attivisti, sindacalisti e intellettuali (lui però non ha tenuto il conto: c’è chi dice siano più di 500). “Ritenevo che secondo i principi di Norimberga nessun funzionario dello stato potesse più nascondersi dietro direttive ricevute dall’alto – ha detto Calamai – Poi ho capito che, in quanto diplomatico, avevo anche i mezzi per fare qualcosa. La ritengo però una cosa normale: ero pagato per fare il mio dovere”. Non così “normale” per la verità: oltre a mettere a rischio la propria vita il giovane viceconsole dovette infatti sfidare l’indifferenza – a volte l’ostilità – dello stesso governo italiano, dei suoi superiori e di molti colleghi, tutti ugualmente interessati a mantenere tranquilli i rapporti con la Junta del generale Videla, deceduto pochi giorni fa.

Per capire come questo sia potuto accadere bisogna fare un passo indietro, precisamente al colpo di stato dell’11 settembre 1973 nel vicino Cile. Le immagini del bombardamento del palazzo presidenziale della Moneda, assieme a quelle degli stadi trasformati in campi di concentramento, stroncano sul nascere ogni resistenza interna, ma allo stesso tempo portano all’isolamento internazionale del regime. Per questo tre anni dopo i generali argentini scelgono una strategia militare e mediatica opposta, imperniata sulla desaparición, con cui culminerà il calvario di tortura di 30.000 giovani, cui si devono aggiungere 15.000 fucilati e molte migliaia di esiliati. “Il segreto sta nel rapporto con i media – analizza Calamai – È importante capire che in un sistema mondiale televisivo, vale a dire iconografico, esiste soltanto ciò che viene rappresentato. L’invisibilità dei cadaveri nega l’esistenza della violenza, lascia un margine di speranza ai familiari, rende possibile il bagno di sangue senza che la società prenda coscienza di quanto sta accadendo e si ribelli”.

Sotto la dittatura insomma tutto sembra continuare con la tranquillità di prima; quando cala la notte però le persone spariscono, prelevate dalle famigerate Ford Falcon verdi che circolano senza targa. L’obiettivo dei militari argentini è abbastanza chiaro: “eliminare i giovani impegnati politicamente per terrorizzare l’intera popolazione, prevenire la svolta democratica verso cui il Paese si sta dirigendo e, una volta paralizzato il Paese, aprirlo al neoliberismo della scuola di Chicago. L’obiettivo potrà tuttavia essere raggiunto soltanto con la complicità delle democrazie occidentali, che potrebbero denunciare pubblicamente ma preferiscono attuare una tacita intesa con i militari argentini”.

Quali sono le ragioni di questo atteggiamento? Perché in particolare l’Italia, che pure in Argentina aveva una delle sue più importanti comunità all’estero, non fece nulla? “La risposta sta nella modalità in cui viene concepito l’interesse nazionale, nella cosiddetta realpolitik – risponde l’ex diplomatico –  L’Argentina era considerato uno dei Paesi più ricchi di risorse naturali al mondo. Il nostro sistema produttivo e finanziario in generale, la nostra classe dirigente, il nostro governo, il sistema mediatico infiltrato dalla loggia P2: tutti agirono in perfetta sintonia al fine di evitare che un’opinione pubblica allertata costringesse a prendere le distanze dai militari argentini, come era successo con quelli cileni”.

Calamai vide la sua carriera compromessa dalla sua scelta di sfidare questa logica: in seguito venne infatti spedito in destinazioni poco ambite come il Nepal e l'Afghanistan, poi messo a riposo appena possibile. La sua storia, mai sbandierata, finirà sotto l’attenzione dei media solo nel 2000, quando anche l’Italia processerà alcuni aguzzini dei desaparecidos. Oggi guarda a quello che avviene in Argentina con la stessa partecipazione di allora, appena velata dal riserbo dell’uomo di stato: “Occorre notare che Videla è morto in carcere, mentre in Italia non abbiamo condannato nessuno dei nostri uomini di potere. In questo abbiamo avuto una ‘bella scuola’, che parte con l’armadio della vergogna del '45 e arriva alle stragi di stato. In Argentina hanno dovuto aspettare 30 anni, e in particolare lo shock del fallimento dello Stato; a quel punto però si sono mossi. Adesso si sta passando dal processare i militari – che erano esecutori di interessi molto più ampi – ad acclarare le responsabilità degli esponenti delle forze economiche che stavano dietro il regime. Credo che questa sia una lezioni di civiltà per tutti noi”.

“I temi della memoria storica e della giustizia, con particolare riferimento ai fatti accaduti durante le dittature, sono oggi di grande attualità in tutta l’America Latina” dice Antonella Cancellier, docente del corso di aggiornamento professionale in Studi latinoamericani, che ha organizzato l’incontro. “Leader come Néstor e Cristina Kirchner, o Lula in Brasile e poi Dilma Rousseff, hanno tratto da essi molta parte della loro legittimazione politica e dei loro stessi programmi elettorali”.

Daniele Mont D’Arpizio

Testo completo dell'intervento

Enrico Calamai a Padova. Foto: Massimo Pistore

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012