CULTURA

Le due culture, ovvero “l’anima cólta dell’ingegnere”

Si dice che sia stato Platone stesso a far incidere sulla porta d’accesso dell’Accademia la frase “non entri nessuno che sia ignorante di geometria”, come ricorda Galileo nel Dialogo sopra i massimi sistemi. L’età classica non ha dubbi, la matematica e la scienza sono il fondamento dell’umana sapienza tanto quanto la filosofia, l’arte, le lettere. Passano due millenni e trasformazioni gigantesche, materiali e culturali, tra il Filebo platonico e l’opera di Galileo Galilei, eppure ancora nel Seicento il sapiente è colui che si fa portatore di una conoscenza universale che spazia dalle arti liberali a quelle applicate per il tramite della matematica, che è il linguaggio in cui è scritto il “libro della natura”. Anzi, c’è di più: la conoscenza è anche tecnica, ossia ingegneria. Ingegneri e astronomi furono gli Egizi, che legarono indissolubilmente la pietra delle costruzioni al cielo e alle stelle; le leggi dell’ottica ispirarono Ictino quando progettò il Partenone “correggendo” le forme delle colonne per accompagnare l’armonia dello sguardo, Leonardo nelle sue macchine diede espressione di quell’ingenium che fu già romano.

Non fu neppure il Settecento a operare quella separazione che originò la distinzione di ruoli e di destini che oggi incombe sui rappresentanti del sapere: l’Enciclopedia, monumento intellettuale dell’Illuminismo, fu infatti un’opera a quattro mani di un letterato (Diderot) e un matematico (d’Alembert). Furono invece gli esponenti del Romanticismo a sentirsi per primi assertori da una parte delle arti e delle lettere e di contro, gli altri, della scienza: William Blake accusava gli scienziati di aver ridotto ad atomi l’esperienza trascendente del divino, per esempio, e dall’altra Darwin riteneva Milton sciocco e Shakespeare tanto noioso da fargli provare malessere fisico.

A stigmatizzare questa contrapposizione, di cui ancor oggi si ha continua prova esteriore, anche in ambiti ufficiali e non solo nei salotti privati (lauree tecniche o, viceversa, umanistiche sono spesso titolo di esclusione per incarichi pubblici nell’uno o nell’altro ambito), fu per primo Charles Percy Snow nel 1959, quando tenne nel Senato dell’Università di Cambridge un celebre discorso che qualche mese dopo divenne un saggio sull’Encounter dal titolo Le due culture. Snow era un fisico di formazione (lavorò con Cavendish e con Rutherford) ma a seguito di una delusione abbandonò la ricerca scientifica per dedicarsi alle lettere, scrivendo romanzi che ebbero in Inghilterra e all’estero gran fortuna.

Questa sua duplice inclinazione gli permise di frequentare ambedue le cerchie di pensatori: quelle che lui stesso definì le “due culture” appunto, quella tecnico-scientifica e quella umanistica, intese dal punto di vista antropologico, ossia come comunanza di tratti (gli scienziati tutti, per esempio, condividono in primis un metodo di approccio all’esistente). Osservò tra i suoi diretti conoscenti una sorta di rifiuto per la materia che non era propria, così marcato da divenire spesso spocchiosa superiorità, specie degli umanisti sugli altri. Racconta Snow che quando chiedeva ai colleghi fisici che libri avessero letto, molti rispondevano qualcosa tipo “Beh, ho provato a leggere Dickens…” come, dice Snow, “se Dickens fosse uno scrittore straordinariamente esoterico”. E quando fece a quei letterati “che ridacchiano di compatimento allorché sentono dire di scienziati che non hanno mai letto un’opera fondamentale di letteratura inglese” la richiesta di spiegare cosa fosse il secondo principio della termodinamica, quello universalmente noto come principio dell’entropia, ottenne in cambio il silenzio. “Eppure” - chiosa l’autore - “chiedevo qualcosa che è pressappoco l’equivalente scientifico di: avete letto un’opera di Shakespeare?”.

Oggi - sessant’anni dopo - le cose non sono tanto cambiate: basti pensare che le università, indirizzate verso la specializzazione, perdonano agli “umanisti” di non saper far di conto (in Italia è quasi un vezzo) e agli ingegneri di non saper parlare (e scrivere). La dicotomia tra pensiero tecnico- scientifico e umanistico ha persino trovato le sue giustificazioni biologiche attraverso la scoperta della lateralizzazione degli emisferi cerebrali individuata dal premio Nobel per la medicina Roger Sperry.

Eppure Geymonat nella prefazione all’edizione italiana del 1964 al saggio di Snow scriveva: “nessuno può essere così cieco da non rendersi conto che l’esistenza di due culture tanto diverse e lontane costituisce un grave motivo di crisi della nostra civiltà”. E infatti il fine ultimo della conoscenza non è certo quello immediato: qual è il progettista che nel creare l’opera, fosse essa un macchinario, un ponte o un software, non abbia in sé una visione del mondo e dell’universo che dà un senso trascendente a quel che crea? Quale l’umanista che non venga colpito ogniqualvolta afferri col pensiero in tutta la sua portata il secondo principio della termodinamica, il tendere  inesorabilmente al caos dell’universo?

Diceva bene Kipling: “What do they of England know, who only England know?” (cosa sa dell’Inghilterra chi conosce solo l’Inghilterra?). Per fortuna ci sono esempi in controtendenza, e a questi guarda la rassegna “L’anima cólta dell’ingegnere”, promossa dalla Fondazione Ingegeri Padova e giunta alla seconda edizione. Un ciclo di incontri articolato su otto diversi appuntamenti, lungo due mesi, che inizia lunedì 25 marzo alle 18.15 al Centro universitario di Padova e vuole mostrare come l’idea dell’ingegnere dedito a far di conto col regolo o col computer, senz’altre passioni e ispirazioni culturali che non quanto attiene strettamente alla propria professione, sia, per fortuna, solo uno sciocco stereotipo.

Valentina Berengo

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