CULTURA

Lo scrigno padovano e la lezione (vera) degli Stati generali della cultura

Martedì pomeriggio sono stato all’Archivio Antico di Palazzo Bo per presentare Viaggio in Italia all’università degli studi di Padova. Passo da un Cortile antico cinquecentesco che ti lascia senza fiato, mi incuriosisce un "mosaico" di legni a parete di Jannis Kounellis che ricostruisce le anime comunista, azionista e cattolica della resistenza padovana e, quasi senza accorgermene, mi imbatto in un «partigiano che vede l’alba della libertà» uscito dallo scalpello di Arturo Martini. Penso di andare a parlare a giovani e meno giovani in un’aula universitaria e mi accorgo di essere entrato in uno scrigno pieno di arte e di luce, uno dei tanti musei a cielo aperto di questo splendido Paese, legni caldi, soffitti e controsoffitti fatti a mano, scaloni, marmi e Gio Ponti ovunque. Resto un paio d’ore con il rettore Giuseppe Zaccaria e Fernando Zilio, un pubblico attento e interessato, a raccontare i luoghi, le facce e le emozioni di un Paese che soffre ma non si arrende, stimolato da ogni genere di domanda, ma mi accorgo di non essere mai uscito da una bellissima condizione dello spirito dove tutto ciò che mi circonda mi parla di creatività e di cultura, mi riempie l’anima e a suo modo mi appaga. Alla fine dell’incontro usciamo a piedi e l’incanto non si ferma, sosta in piazzetta Pedrocchi in un bar pieno di storia che custodisce il segreto della città, faccio quattro passi in via Roma, un gioco di chiese e canali, la quiete della provincia con più ciclisti che pedoni, dopo la casa di Paolo Sarpi il rettore mi indica una lapide dove c’è scritto «Zaccaria scaleter dal 1811», sono i suoi antenati e sono pasticcieri. Ha voglia di raccontare e mi fa: «La storia di questa città è una storia di libertà e di cultura. Nel 1222 studenti e professori vennero qui da Bologna perché a Padova si sentivano più liberi, avvertivano che c’era simbiosi tra gli studi e la città, il primo campus lo abbiamo inventato noi».

Lo spirito che ho respirato martedì pomeriggio a Padova è lo stesso che mi è sembrato di percepire agli Stati generali della cultura, organizzati giovedì dal nostro giornale nell’auditorium della Conciliazione a Roma, dove la forza e i colori della bellezza italiana, i secoli di arte e cultura che segnano le piazze e le strade dei suoi mille borghi e ne fanno un unicum mondiale, hanno trovato facce e voci in un clima (bellissimo) intriso di inedito pragmatismo ministeriale ma anche di passione civile. Si presenta Arianna, mi colpisce la freschezza dei suoi diciassette anni e mi torna in mente la lettera con la quale mi ha raccontato il suo amore per l’arte, la cultura e il senso civico ricevuto in dono da una mitica professoressa che è riuscita a trasferirle la sua passione e il suo trasporto per la «Domenica» del Sole e una certa idea della vita e della cultura che ne è alla base. Siamo come molluschi che hanno dimenticato la conchiglia, scrive da par suo Andrea Carandini, dove torna a chiedere insegnanti di Storia dell’arte che abbiano la stessa passione della professoressa di Arianna e si entusiasmino per un torchio, un mulino, un abito o una ricetta o, più semplicemente, aggiungo io,una tela,una poesia, un brano musicale, una prelibatezza delle nostre terre. Abbiamo bisogno di giovani che siano consapevoli su quali pepite d’oro camminano e su come custodirle e farle fruttare nello spirito e nel lavoro che ha in quelle pepite d’oro la cifra autentica del made in Italy. 

Perché questa consapevolezza sia piena, come segnala opportunamente Armando Massarenti sempre in questa stessa pagina, non basta amare e studiare la storia dell’arte ma serve la vecchia, cara Educazione civica che sviluppi in ognuno lo spirito critico e costruisca i cittadini del domani. Forse, anche nella cultura, non c’è nulla di più nuovo che tornare all’antico. L’importante è farlo in fretta.

Roberto Napoletano

L'articolo Lo scrigno padovano e la lezione (vera) degli Stati generali della cultura è tratto da Il Sole 24 ore del 22 giugno 2014

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