Nel ‘68 ero assistente di diritto costituzionale nella facoltà di giurisprudenza, una facoltà molto conservatrice con studenti poco attivi politicamente. Fuori invece cominciavano a muoversi molte cose, soprattutto nelle Facoltà scientifiche. Erano iniziate le lotte nelle fabbriche e si era prodotta una importante saldatura fra operai e studenti che – se non ricordo male – interessava dapprima soprattutto gli universitari veneziani.
In verità in Italia il ‘68 ha rappresentato solo un inizio, i fatti più rilevanti sono avvenuti successivamente, a Padova negli anni Settanta.
Del periodo iniziale ricordo bene le violente aggressioni dell’estrema destra, gli scontri fra i ragazzi del Movimento studentesco e i fascisti, anche nelle piazze: ne ho ancora uno nella memoria avvenuto in piazza Capitaniato accanto alla facoltà di lettere, con la polizia che tentava di dividere i due fronti. E soprattutto ricordo, nel ‘69, la bomba gettata dai fascisti nello studio del rettore Enrico Opocher a Palazzo Bo (dello stesso episodio parla anche Giuseppe Zaccaria, ndr). Di tutto quello che c'era nella stanza, dei tanti libri e delle numerosissime carte non è rimasto nulla. Tutto è stato bruciato. Il ricordo per me è particolarmente vivo e doloroso perché in quello studio c'era anche il dattiloscritto – l’unica copia, allora non esisteva il computer – di un volume scritto dal mio primo marito Luigi Caiani, assistente di Opocher, che era morto prima di poterlo pubblicare. Il lavoro era praticamente finito, al testo mancavano solo poche note che io avevo potuto ricostruire sulla base dei suoi appunti ordinatamente conservati in una cartella. Opocher era incerto sull’opportunità di dare alle stampe un’opera che l’autore non aveva potuto rivedere, perciò pensai di chiedere il parere di Norberto Bobbio: il primo maestro di mio marito, al quale lui sempre rimase legato . Andai dunque a Torino con il dattiloscritto e Bobbio, dopo averlo letto, venne a Padova per riconsegnarlo a Opocher ed esprimergli la sua opinione assolutamente favorevole. Ci fu però un ritardo nell’invio alla casa editrice e così, in quello studio, insieme a tutto il resto è andato in fumo anche lo scritto sull'analogia giuridica di Luigi Caiani, uno dei più geniali filosofi del diritto. Un lavoro che non vedrà mai la luce!
È un ricordo particolarmente doloroso, che non mi abbandona.
A parte le violenze fasciste, i miei ricordi appartengono tutti agli anni ‘70, un prolungamento del ‘68 che da noi è continuato in varie forme per un lungo decennio. La situazione, a Padova, è stata diversa da quella di altre città: alle violenze fasciste, che hanno certamente influito sull’azione del movimento studentesco e sullo stesso evolversi della sua struttura, si aggiunse nel 1971 la creazione (a Padova e a Roma) dei primi corsi di laurea in psicologia che hanno portato nella nostra città migliaia di studenti da tutte le parti d’ Italia. Pieni di illusioni ma subito delusi e infuriati per non aver trovato alloggi, mense e aule adeguate, furono uno dei principali focolai di protesta. È incredibile la cecità del potere, l'incapacità di prevedere cose evidenti!
Negli anni più caldi, gli anni della contestazione, rimanendo a giurisprudenza nel ruolo di assistente, ho insegnato anche nella facoltà di scienze politiche: l’aula, molto grande, era sempre piena di studenti che venivano volentieri perché li ascoltavo, mi parlavano , si discuteva. È stata un’esperienza bella e stimolante in quel periodo burrascoso e anche l’unico episodio difficile si è poi risolto positivamente: un giorno si presentarono agli esami alcuni studenti (diversi dai frequentatori) chiedendo il 28 politico. Alla mia domanda di fornire ragioni convincenti sull’utilità (per loro o per la società) di una simile richiesta seguì una discussione durata la mattinata intera; e, alla fine, gli esami si svolsero regolarmente. La parola e il dialogo valgono, non la violenza! Purtroppo invece le autorità accademiche giunsero persino a chiamare la polizia all’università contro gli studenti!
I giovani occupavano le facoltà, volevano parlare, e la maggior parte di questa classe professorale (non tutta per fortuna, specie nelle facoltà scientifiche) rimaneva sorda e chiusa!
Guardavo con simpatia questo fermento, era la rivolta di una gioventù che aveva dei sogni, l’idea di giustizia sociale, il desiderio di portare qualcosa di nuovo, di cambiare il mondo. Erano pieni di entusiasmo, di pensieri, di cose, e si trovavano di fronte un ambiente accademico sclerotico, pesante, lontano. Molti aprivano per la prima volta gli occhi sull'ingiustizia sociale, anche ragazzi della Padova borghese: così, per la loro partecipazione, venivano continuamente arrestati anche senza aver fatto niente di grave. Li prendevano e li rilasciavano; era un clima poliziesco pesante. Alcuni di questi giovani poi sono andati fuori, spesso in Francia. Le idee nuove e le buone intenzioni sono state soffocate: una generazione, in parte almeno, si è persa.
Apparentemente è rimasto poco del ‘68, che fu però una stagione importante e scosse le istituzioni (non solo universitarie): dopo di allora non sono state più le stesse anche se forse, alla fine, non molto migliori seppure con connotati negativi diversi. Nemmeno può dirsi del tutto perduta l’aspirazione dei giovani alla libertà contro le strutture autoritarie che li opprimevano, anche se, morto il movimento, troppi studenti sono tornati al loro privato, all’interesse contingente, indifferenti alle questioni politiche e alle questioni sociali, come del resto fa comodo al potere.