UNIVERSITÀ E SCUOLA

Io, studente di giurisprudenza nel '68

Ho vissuto quello che sarebbe diventato il “mitico 1968” come studente dell’università di Padova. Studente di giurisprudenza, cioè di una facoltà non particolarmente aperta e politicamente “progressista”. Negli ultimi mesi del lungo rettorato (19 anni!) dell’ingegnere Guido Ferro, un fermo critico della democratizzazione degli organismi universitari, in un ateneo che nel giro di pochi anni da università d’élite era divenuta università di massa (da 10.000 a 30.000 studenti nel corso di otto anni!), si erano succeduti e intensificati numerosi eventi di protesta, di sciopero, di occupazione (“Battere il Ferro finché è caldo!” era uno degli slogan preferiti), che costrinsero il rettore a dimettersi. Soffiava impetuoso anche a Padova il vento del ’68, partito dai campus americani e dalla Sorbona di Parigi ed estesosi rapidamente in Italia con i movimenti studenteschi di Torino e di Trento.

Pur appartenendo ad una facoltà “reazionaria”, avevo vissuto in prima persona la crisi finale degli organismi di rappresentanza studentesca, partecipando attivamente ad alcune assemblee dell’Intesa e dell’Ugi, e mi ero reso conto di come il nodo della scuola e dell’università fosse divenuto strategico rispetto alla condizione delle generazioni giovanili e di quelle che a quel tempo venivano chiamate le masse popolari. La frequentazione delle opere di Don Milani (Lettera a una professoressa è del maggio 1967) e di alcune riviste, tanto del “dissenso cattolico”, da Testimonianze a Questitalia, quanto della sinistra, da Quaderni Piacentini a Contropiano, collocavano la mia contestazione su un piano prevalentemente teorico e intellettuale (anche perché, a proposito di antiautoritarismo, la realtà di  giurisprudenza era sconfortante…). I fermenti del dopo-Concilio, il conflitto generazionale, la richiesta di maggiore partecipazione nell’università e nella società, la crisi del sistema educativo e della nozione di “autorità” si saldavano nel magma indistinto di un’aspirazione al cambiamento per me un po’ vaga e ancora da definire.

Delle numerosissime contestazioni e occupazioni che si susseguirono nel Sessantotto padovano ho vivo il ricordo di almeno due eventi, a uno dei quali partecipai, anche se in quinta fila. Nel gennaio 1968 fu organizzata un’assemblea a Palazzo Bo per protestare contro lo sgombero di un’occupazione dei giorni precedenti a lettere. Assemblea foltissima e molto accesa, improvvisamente elettrizzata dalla notizia che “stavano arrivando i fascisti”. Chiuse immediatamente le porte dell’aula per difendersi dall’attacco, l’assemblea continuò in un clima di grande tensione, ma poco dopo anziché i fascisti arrivò la polizia, che identificò e fermò ben 126 studenti, ma anche il malcapitato funzionario Artusi, che nulla c’entrava con la protesta ma aveva il suo ufficio dei rapporti con l’estero all’interno del Bo. I 126 furono incriminati per “aver invaso l’edificio centrale dell’università… onde occuparlo e trarne profitto”, ma il procedimento che ne seguì alla fine si concluse con un’amnistia.

Nel dicembre1968 si tenne un’ affollata protesta davanti al Bo con decine e decine di studenti che, dopo aver cantato una parodia protestataria di Addio Lugano Bella e scandito slogan truculenti contro il sistema, guidati da una notissima leader, figlia di un barone di lettere, sfondarono il portone di bronzo del Bo per portare in rettorato la protesta: ma appena riusciti ad entrare nell’ateneo, ermeticamente chiuso, buona parte degli studenti si disperse, e quando la polizia chiamata dal rettore fece irruzione nel palazzo, trovò pochissimi esponenti della protesta.

Se però mi si chiedesse quali sono per me, oggi a cinquant’anni di distanza da quell’anno un po’ perduto nel tempo, i ricordi ancora più vivi ed emozionanti, dovrei citare due episodi molto diversi, ma entrambi per quanto mi riguarda ricchi di significato.

Dicembre 1968. In mensa vengo avvicinato da un amico, attivo nel CUC (Centro Universitario Cinematografico), che mi dice: se ti interessa, questa sera in Aula Morgagni proiettiamo un film, appena realizzato, che la produzione vuole “testare” davanti ad un pubblico giovanile dovendo decidere se distribuirlo in Italia. Nulla sapevo del film, del regista, degli attori, della musica. Solo la sera scoprii di fare da cavia alla distribuzione in Italia di Easy Rider, che sarebbe diventato nel giro di pochi mesi un’icona della contestazione giovanile in tutto il mondo. Il senso di totale libertà del viaggio in chopper attraverso l’America dei due motociclisti, la voglia di evadere dalla piatta società borghese, l’indimenticabile colonna musicale rock con la celeberrima Born to Be Wild, la tragica fine del viaggio, mi si impressero così vivamente nella memoria da fare per sempre di questo film cult un simbolo della controcultura e del non conformismo, per me indissolubilmente legato al ’68.

Il senso di totale libertà del viaggio in chopper attraverso l’America dei due motociclisti, la voglia di evadere dalla piatta società borghese, l’indimenticabile colonna musicale rock...mi si impressero così vivamente nella memoria Giuseppe Zaccaria

Del tutto diverso, ma altrettanto forte nella memoria, il secondo episodio. Studente di giurisprudenza, un po’ deluso dall’arida autoreferenzialità con cui molte materie di diritto positivo venivano insegnate, avevo trovato nelle lezioni di Enrico Opocher un’oasi insperata di apertura culturale e di libertà intellettuale, la possibilità di porsi interrogativi critici sulla società, la politica, il diritto, e di considerare il giurista come un protagonista a pieno titolo della vita civile e sociale. Fu dunque naturale per me chiedere al professore la tesi, il che mi permise di frequentarlo più intensamente e poi di diventarne allievo. Opocher venne eletto rettore il 12 novembre 1968, alla fine di un anno che vide esplodere la protesta studentesca e l’accendersi dei primi, inquietanti fuochi della violenza politica, con scontri tra gruppi dell’estrema destra e dell’estrema sinistra. Nella sua elezione si esprimeva, con la scelta di una delle personalità più libere e aperte, la coraggiosa scommessa di un mondo accademico interpellato e impaurito dalla contestazione, ma spesso ancora chiuso e arroccato nel proprio potere. Pur considerando, allora, Opocher una persona anziana (era stato eletto a 54 anni!), ho ammirato in quegli anni difficili la lucidità con cui il metodo del dialogo e della tolleranza, ma anche della fermezza di fronte alla violenza – che peraltro rappresentavano alcuni dei nuclei più profondi del suo pensiero – era da lui praticato anche di fronte alla dura intemperanza della contestazione studentesca, riconoscendone nel contempo il fermento innovatore.

Il 15 aprile 1969 nello storico Istituto di filosofia del diritto, che aveva ospitato le attività cospirative antifasciste di Bobbio, Trentin, Curiel e dello stesso Opocher, esponenti dell’estrema destra fecero scoppiare una bomba Giuseppe Zaccaria

Ma quando le forme scomode e intransigenti della protesta iniziarono a sconfinare nella violenza distruttrice (dall’aprile 1968 una lunga catena di attentati dinamitardi scosse Padova, facendone un laboratorio nella strategia della tensione e nella creazione di movimenti eversivi), non vidi in Opocher mutamenti significativi, ma solo un acutizzarsi della preoccupazione e dello sdegno. Ma nessuno poteva immaginare che la violenza avrebbe colpito uno dei luoghi a lui più cari. Il 15 aprile 1969 nello storico Istituto di filosofia del diritto, che aveva ospitato le attività cospirative antifasciste di Bobbio, Trentin, Curiel e dello stesso Opocher, esponenti dell’estrema destra fecero scoppiare una bomba, che provocò un violento incendio nel quale andarono distrutti molti volumi antichi e preziosi appunti del rettore. Raggiunto dalla notizia, il giorno dopo, mi resi conto che quella violenza voleva fermare un’inevitabile evoluzione democratica della società italiana e toccai con mano che si apriva una triste stagione di violenza e di sangue per il nostro Paese. Una violenza in quel caso molto legata all’impegno civile e politico di Opocher, ma che discendeva anche dal radicalismo e dalle inquietudini del ’68, un’onda lunga di polarizzazione estremista che avrebbe portato dalla fede ingenua nell’utopia di un mondo alternativo alle tragedie del terrorismo politico e degli anni di piombo.

Non potrò mai dimenticare la dignità e la solennità con cui il mio maestro, camminando turbato in mezzo alle macerie della sua biblioteca, prese nelle mani i volumi delle opere di Capograssi, il suo maestro, bruciacchiati e anneriti dall’esplosione e me li donò con queste parole: “Li tenga lei: ora tocca a voi, non dimentichi mai i valori di libertà e di tolleranza”. L’indomani egli scriveva queste parole sul Corriere della sera: “Non ho bisogno di sottolineare tutta l’odiosità di questo attentato. Vorrei poter pensare che esso non sia opera di studenti… Ma da qualunque parte questo gesto bestiale provenga, una cosa è certa: esso costituisce un altro passo verso quell’abisso di violenza e di sopraffazione, al quale sembra si voglia deliberatamente portare il nostro Paese. Ed è questo che dovrebbe essere oggetto di meditazione per tutti, prima che sia troppo tardi”.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012